di Samir Hassan
Anche guardando distrattamente gli scaffali delle grandi librerie, vi sarete imbattuti in un volume, più o meno agile e dal titolo più o meno accattivante, dedicato alla crisi russo-ucraina che da oltre un anno strappa intere colonne sui media mondiali e che ha lasciato dietro di sé numerose vittime e atroci eventi. Il discorso però è che la stragrande maggioranza di quei testi – accalcati nelle tipografie a inizio 2014, a soli due mesi dall’inizio di Euromaidan – hanno mostrato una scarsa attitudine all’analisi reale dei fatti, soffermandosi alcuni sul dato evenemenziale della rivolta di piazza anti-russa e altri sulle tragedie umanitarie che, come in ogni guerra, fanno da corollario alle manovre politiche discusse a tavolino. Se c’è dunque un pregio nel lavoro di Eugenio Di Rienzo (Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale, pp. 104, € 10,00, Rubbettino) è quello di aver calato l’analisi l’approfondimento di questo conflitto in un contesto storico ampio, che fa il paio con il coraggio di chiamare per nome alcuni fatti, come nella breve introduzione all’agile saggio in cui la nuova reggenza di Kiev viene chiamata «Colpo di Stato» e «Stato-marionetta».
Il punto di partenza dell’autore è esplicito e dichiarato fin dalle prime battute da cui il lettore può cogliere la riflessione di fondo sui cui è basata l’analisi portata avanti nel volume.
Dopo il disfacimento dell’Impero sovietico, Kiev ha iniziato la sua lunga, contrastata, non rettilinea marcia per arrivare a un allineamento con Europa occidentale e Stati Uniti e a un allontanamento dalla Russia. Questo processo ha rappresentato un punto di rottura nella storia russa. Il recente colpo di Stato in Ucraina è stato il momento in cui il periodo del dopo Guerra Fredda è definitivamente finito per la Federazione russa. I cittadini di Mosca, San Pietroburgo, Volgograd, Novgorod, Vladivostok hanno giustamente interpretato la “rivoluzione di Majdán Nezaležnosti” come il tentativo degli Stati Uniti di spingere l’Ucraina nella Nato e quindi di preparare il terreno per la definitiva disintegrazione della Russia come Grande Potenza. Se Washington riuscirà davvero a inserire stabilmente l’Ucraina nel blocco occidentale, la Russia diverrà automaticamente indifendibile. Il confine meridionale con la Bielorussia e la frontiera sud-occidentale non offrirebbero, infatti, alcun ostacolo all’ingresso di un potenziale invasore. Dopo aver assistito a questo tentativo di minare le basi geostrategiche della sua sicurezza russa, Mosca è tornata con maggior forza a promuovere una strategia in grado di riaffermare la sua sfera d’influenza storica nelle aree dell’ex Unione Sovietica. Anche se il limite degli interessi strategici della più grande Nazione slava resterà a lungo materia di controversie, è certo che la grande ritirata della Dherzava (Potenza russa), iniziata nel 1991, è terminata nella notte del 23-24 febbraio 2014, quando un ben orchestrato colpo di mano, presumibilmente portato a termine con la complicità di una parte Cancellerie occidentali, defenestrò il Presidente filorusso dell’Ucraina Viktor Janukovyč.
Quello che a prima vista può forse sembrare un totale appiattimento del ragionamento su un malcelato filo-putinismo, si rivela invece un modo coraggioso e trasparente di mettere in fila fatti e ragionamenti capaci di dirci qualcosa di più delle litanie finora ascoltate ai Tg.
Prima di tutto, Euromaidan è la prova lampante che la Nato ha da tempo intrapreso una marcia verso Est, contravvenendo al flebile equilibrio creato dall’allora Segretario di Stato Usa, James Baker, che nel 1990, consapevole che i Sovietici non sarebbero stati disposti a ritirare le loro forze dalla Germania orientale in assenza di sufficienti garanzie per il futuro, dichiarò che non ci sarebbe stata «nessuna espansione dell’Alleanza Atlantica verso est», dopo il ricongiungimento delle due Germanie, e assicurò Ŝevardnadze e Gorbaciov che «mai e in nessun caso la giurisdizione della Nato e quella dell’Unione Europea avrebbero potuto estendersi alle Nazioni dell’Europa orientale». Il secondo punto su cui si sofferma Di Rienzo è la cronistoria della “primavera ucraina” divenuta immediatamente una guerra civile combattuta poi con l’intromissione anche militare di Potenze straniere. Una considerazione che si sposa con la proclamazione dell’indipendenza della Crimea, la formazione delle Repubbliche del Luhans’k oblast e di Doneck coinvolte ora nelle vendette della «guerra ai civili», scatenate dal nuovo Presidente dell’Ucraina Petro Oleksijovyč Porošenko nel totale disinteresse dei governi della Ue. La terza intuizione spiegata con dovizia di particolari da Di Rienzo riguarda invece la strategicità dell’Ucraina: un Paese che vanta 40mila chilometri di gasdotti che lo collegano alla Russia e all’area del Mar Caspio e che soddisfano per il 25-31% il consumo energetico di Europa e Turchia (e per il 43% quello della sola Italia). Una Nazione, la seconda per vastità in Europa, che possiede una sterminata quantità di risorse minerarie ancora vergini e un’ampia riserva agricola in forte espansione.
Più che in altri casi, inoltra, desta curiosità il fatto che a misurarsi su un piano di discussione così franco e diretto sia un autore che, non ce ne voglia Di Rienzo, non si è mai caratterizzato per essere ascrivibile all’eletta (e ultimamente pigra) schiera di intellettuali che fanno riferimento all’odierna sinistra di classe. Un elemento, anche questo, su cui aprire una riflessione.
(Pubblicato il 15 aprile 2015 – © «Le Monde diplomatique/il Manifesto»)