di Aurelio Musi
L’Afghanistan dall’11 settembre 2001 è entrato prepotentemente nella nostra vita quotidiana. I mezzi di informazione ci somministrano la dose giornaliera o quasi di morti ammazzati: i loro fotogrammi sono frammenti apparentemente insensati di una cronaca priva di storia, schiacciata sul tempo dell’istante, destinata ad essere dimenticata da altri frammenti che non riusciamo a disporre in un ordine logico.
Merito del breve ma intenso libro di Eugenio Di Rienzo, Afghanistan il grande gioco 1914-1947 (Salerno ed., Roma 2014), è soprattutto quello di radicare la cronaca nella storia presente. Di Rienzo si pone una domanda a proposito dell’avventura afghana: “Che cosa ci facciamo qui?”. Le possibili risposte sono tre, secondo l’autore. La prima: siamo in Afghanistan per debellare il terrorismo internazionale. Ma è un controsenso. Apparve subito chiaro dopo il 2001 che anche il terrorismo era una variante della globalizzazione e che si doveva debellare, come si scrisse allora, “contro un nemico invisibile”. Seconda risposta: siamo in Afghanistan per combattere una “guerra di civiltà”. Ma si è capito che si tratta di un’espressione di comodo, strumentale: persino i totalitarismi hanno presentato le loro come “guerre di civiltà”. E poi, scrive l’autore, “è possibile davvero definire giusta una guerra con la quale i nuovi crociati dell’Occidente pretendono di imporre un sistema di vita difficilmente compatibile con quello, sicuramente arretrato e disumano, che gli afghani tuttavia hanno difeso vittoriosamente con le armi fin dalla prima metà del XIX secolo, trasformando da quel momento la loro patria nel simbolo vivente della resistenza dell’Islam radicale a ogni tentativo di assimilazione da parte degli infedeli?” (p. 10).
La terza risposta appare a Di Rienzo la più convincente: la nostra presenza si spiega con la geopolitica e con la storia. La convergenza tra geografia e storia dimostra che la vera posta che ha alimentato il “grande gioco” delle potenze in Afghanistan è stata l’India. E allora sono tre soprattutto le frasi da ricordare. E sono tutte di provenienza inglese. 1907: “I cancelli dell’India sono in Afghanistan”. 1921: “L’Afghanistan è il più importante cuscinetto strategico tra Russia e India”. 1940: “E’ parte integrante del sistema di difesa dell’impero britannico”. Si potrebbe dire, per riprendere una formula che ho usato in questo blog in un altro mio intervento a proposito di tre imperi (quello spagnolo, quello americano e quello sovietico), che l’Afghanistan ha svolto per la parte asiatica dell’impero inglese la funzione di sottosistema.
Come un lavoro teatrale, il dramma rappresentato da Di Rienzo si svolge in cinque atti. Il primo atto ha il suo scenario nella prima guerra mondiale: l’Afghanistan è parte dello scontro che vede da un lato il Reich germanico e la Turchia, dall’altra l’Inghilterra. Il secondo atto si svolge tra il 1923 e il 1939. Esso vede la costruzione di un asse privilegiato tra Berlino e Kabul soprattutto attraverso legami economici, le difficoltà di modernizzazione dell’Afghanistan, i tentativi di destabilizzazione interna del paese alimentati soprattutto dall’Inghilterra. Anche l’Italia entra in questo scenario perché è la prima potenza europea a riconoscere l’Afghanistan. Il terzo atto inizia nel 1939 col patto Molotov-Ribbentropp e con i suoi contraccolpi in Asia, determinati dal rischio di una manovra congiunta nazi-bolscevica: “grazie a quell’accordo le antiche ambizioni russe di arrivare ai Dardanelli, al Golfo Persico e a quello del Bengala si saldavano con quelle del Terzo Reich determinato a smantellare, servendosi dell’intesa edificata tra irredentismo arabo, estremismo islamico e nazismo, le posizioni di supremazia acquisite da Francia e Inghilterra in Medio Oriente, Asia centrale e India” (p. 53).
Ma nel corso della II guerra mondiale l’Urss si avvicina all’Inghilterra per bloccare l’avanzata della Germania in Medio Oriente. Il condominio anglo-russo dell’Iran è un duro colpo per l’Asse. E’ in questo contesto che gli orientamenti di politica estera dell’Afghanistan oscillano di continuo tra i due schieramenti in campo e dipendono sempre più dalle sorti della guerra sul fronte orientale. Il quarto atto si apre con Pearl Harbor (Dicembre 1941). Gli equilibri in Asia appaiono cambiati, rivolte e conseguente repressione in India annunciano un momento favorevole all’Asse, ma Di Rienzo definisce “vuota” l’alleanza tra Germania e Giappone, perché gli obiettivi delle due potenze divergono: il Giappone rinuncia a invadere l’India e inizia una manovra offensiva nell’Oceano Indiano. Nel quinto atto assistiamo all’entrata in scena di un nuovo protagonista, Gli Stati Uniti. Nel 1942 essi siglano un trattato di amicizia con l’Afghanistan. Ma continua l’oscillazione del pendolo nella politica estera di questo paese: prima Kabul resta ancora vicina all’Asse; poi, dopo i suoi disastri militari, dal 1943 oscilla verso gli Alleati. Ha il timore di passare dalla minaccia nazista alla minaccia comunista.
Di Rienzo nota giustamente una certa continuità tra la conferenza di Teheran del 1943 e quella di Yalta del 1945. “Il protocollo di Teheran fu accolto con sollievo e soddisfazione a Kabul. Nella capitale iraniana Washington aveva dimostrato infatti di voler differenziare profondamente la sua politica verso Mosca quasi a voler anticipare il copione della conferenza di Yalta del febbraio 1945. Per quello che riguardava l’Europa centrale e orientale la Casa Bianca abbandonò la vecchia dottrina del cordone sanitario fino al punto da concedere notevoli aperture sulla controversa questione delle rivendicazioni sovietiche concernenti le linee di frontiera con Polonia, Finlandia, Romania e l’incorporazione delle Repubbliche Baltiche. Per il Medio Oriente invece Roosvelt adottò una strategia di contrapposizione frontale contro l’antica aspirazione russa di proiettare la sua supremazia verso il Golfo Persico e l’India” (p. 121).
Altra data periodizzante è il 1947: dopo l’indipendenza del Pakistan, nel conflitto indo-pakistano per il Kashmir l’Afghanistan si schiera con l’India. Ma ancora negli anni successivi il pendolo di Kabul oscilla: prima, nel 1953, verso Mosca per realizzare il sogno del “Grande Afghanistan”; poi, dopo la sconfitta militare, verso gli USA; nel 1973 dopo un colpo di Stato l’Afghanistan stabilisce nuovi legami con l’URSS; nel 1977 altro avvicinamento agli USA. E’ la guerra fredda, bellezza! L’epilogo della storia, ricostruita da Di Rienzo, è la “guerra dei dieci anni”, dal 1979 all’89, che l’Unione Sovietica combatte in Afghanistan. Sarà la sua tomba: sia per la sconfitta militare e gli alti costi in uomini e risorse, sia perché sarà una delle cause del crollo del regime comunista.
Il 30 novembre 2010, ricorda l’autore, Andrea duca di York, terzogenito della regina Elisabetta, ha affermato che “oggi il Regno Unito, l’Europa occidentale e gli Stati Uniti sono di nuovo nel mezzo del Grande Gioco e ci resteranno fino a quando non avranno vinto tutto l’oro della puntata”. Commenta Di Rienzo: “Questa incauta profezia era però stata già smentita da uno dei più acuti analisti del Pentagono che soltanto l’anno precedente aveva definito l’Afghanistan la tomba degli imperi”. Su questo punto sono solo in parte d’accordo con Di Rienzo. Oggi l’Afghanistan non decide “il conflitto per la supremazia globale”, né è più la “tomba degli imperi”. Più modestamente resta un’area regionale strategica in un mondo multipolare. Non è poco, certo. E dobbiamo essere tutti più vigili e non commettere gli stessi errori del passato.
(Pubblicato il 2 giugno 2014 – © L’Acropoli/Blog)