di Luigi Mascilli Migliorini
Furtivamente, quasi fosse un particolare trascurabile in una vita ben altrimenti importante, i libri di scuola ricordano che Carlo V, giunto quasi al termine della sua vita, decise di abdicare, e si rifugiò nel monastero di San Jeronimo de Yuste. Non è facile sapere che cosa egli abbia pensato nei giorni, finalmente silenziosi, che lo avvicinavano alla morte. Certo, il potere, la sua natura e le sue vanità, non dové essere estraneo ai suoi pensieri. Certo, nel gesto stesso del ritiro dal mondo si rivelava l’eredità complessa di un uomo che aveva conosciuto, stando nel suo punto più critico, il passaggio dall’Europa dei tempi di mezzo, con le sue paure, ma anche con le solide fondamenta delle sue istituzioni feudali, all’Europa moderna con la gloria dubbiosa delle sue incertezze.
È da questo straordinario protagonista dell’origine della modernità che prende avvio il libro di Aurelio Musi (L’Impero dei Viceré, Bologna, Il Mulino, pagg. 266, € 23,00) che torna con esso a interrogarsi su un tema che gli è particolarmente caro e sul quale ha offerto negli anni, conoscenze e intuizioni critiche di assoluto rilievo. Il Carlo V di questo libro è, infatti, essenzialmente il costruttore di un Impero, che non è esattamente quello che, sempre dai libri di scuola, abbiamo imparato a conoscere come una terra su cui non tramonta mai il sole, ma piuttosto è l’impero che nasce quando, abbandonato il disegno dì tenere insieme, appunto, il Vecchio Mondo del Sacro Romano Impero germanico e il Nuovo Mondo aperto dalle scoperte di Colombo. Carlo decise di mettere mano a quell’inedito edificio politico della modernità che è l’Impero spagnolo.
Come si sa, infatti, prima di chiudersi nella quiete di San Jeronimo egli volle dividere tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo i suoi vasti domini: da un lato i possedimenti europei raccolti intorno al Sacro Romano Impero, dall’altro la Spagna con l’Italia e le conquiste americane. Una divisione di spazi che era anche una divisione di tempi, perché – a dirlo in maniera ovviamente rapida – quello che di medievale viveva ancora forte nell’esperienza politica di Carlo V stava da questa parte dell’Atlantico, mentre dall’altra parte dell’Oceano, la Spagna, che era essa stessa una creatura sostanzialmente giovane, si affacciava alle lusinghiere attese del futuro. All’inizio l’esito di quella successione non era, per la verità, così scontato. Solo nel momento in cui Carlo capisce che il personaggio forte della famiglia è il figlio Filippo, “lo spagnolo”, e che, in senso reciproco, è in Spagna che si gioca la partita politicamente più interessante, egli rivede il proprio disegno, abbandona l’idea di consegnare a Filippo la corona imperiale, lasciandolo sul trono di Madrid, ben consapevole – come scrive Musi – «che è intorno alla monarchia ispanica che si giocano i destini del mondo».
Nessun secondo Carlomagno, dunque, e tuttavia un uomo nel quale agiscono prepotentemente le suggestioni di due tempi che nel sovrapporsi l’uno all’altro inducono, inevitabilmente, faglie di rottura.
Nulla di sorprendente, dal momento che la costruzione e, soprattutto, la manutenzione di Imperi, o di sistemi imperiali come ama ricordare Musi, si presentano sempre con i caratteri di un difficile equilibrio tra ciò che si eredita dalla tradizione e che si sa che occorrerà un giorno o l’altro abbandonare e quello che il presente, e ancor più il futuro impongono, ma che si esita a cogliere e ad attuare nella sua pienezza. Basti pensare, all’inizio dell’Ottocento, all’effimero sforzo compiuto da Napoleone o a quello, più durevole e però più controverso, con il quale il principe di Metternich prova a fare di un vecchio castello come l’Impero asburgico un autorevole protagonista del mondo contemporaneo. Per la Spagna il discorso è ovviamente più complicato, in ragione della lunga durata, ma soprattutto della novità che, alle soglie della modernità, rappresenta un Impero che vuole organizzare la propria presenza su terre e genti antichissime come l’Italia mediterranea e giovanissime come i remoti spazi d’America.
Guardando a uno dei nodi centrali di questo Impero – il rapporto tra centro e periferia – il libro insiste molto sulla novità costituita dai viceré, figure nuove e, in qualche misura autonome, che se non determinano un «sistema confederale», diventano la governance di un corpo politico articolato, come dimostrano i cerimoniali che ne accompagnano l’ingresso in quelle città – Napoli, Lima, Città del Messico, Palermo – che in questo si rappresentano come capitali capaci di non sfigurare con la lontana Madrid. E chi giunge in queste città salutato – come dicono le cronache del tempo – «con vari ornamenti di festoni, statue, epigrammi secondo più vene a core…», non sono solo arcigni rampolli della nobiltà castigliana, ma élites che si sono formate nel governo di questa o quella parte del Regno e che qui vengono a consacrare il loro cursus honorum. Élites imperiali, insomma, figlie di una mondializzazione di età moderna che anche in questo ricorda il nostro tempo globale.
(Pubblicato il 13 ottobre 2013 – © «Il Sole 24 Ore»)