di Giuseppe Galasso
Le montagne partoriscono spesso topolini, e le reazioni psicologiche di un’attesa così frustrata sono diverse, ma sempre forti. A parlare con vari amici e colleghi, ai nomi degli studiosi stranieri candidati a far parte delle commissioni esaminatrici per gli attuali concorsi a cattedre universitarie di prima e seconda fascia, le reazioni positive sembrano in minoranza e quelle più diffuse vanno dalla delusione al disappunto e all’amarezza.
Come si sa, con le nuove norme uno dei membri delle commissioni dev’essere straniero. Semplice la motivazione. A parte l’immancabile, e ormai stucchevole, rilievo che in Italia bisogna «internazionalizzare» gli studi e la ricerca, imputati di un grave «provincialismo» e di una dominante autoreferenzialità, ritorna soprattutto la nota del clientelismo e personalismo che nei concorsi e nei ruoli universitari italiani dominerebbero. La presenza di uno studioso straniero in commissione garantirebbe la famosa internazionalizzazione e, soprattutto, eviterebbe i clientelismi e i personalismi nostrani.
Nessuno, credo, pensa che le critiche alla nostra università siano tutte infondate. Perché, dunque, tante reazioni negative ai nomi degli stranieri in questione? Non si discute la serietà e considerazione meritata e presupposta per ciascuno di loro. Quel che si nota è che, salvo errore, nessuno dei nomi indicati è di larga fama e perentoria autorità. Naturalmente, il discorso deve cambiare da disciplina a disciplina, e non pare che a ciò si sia fatta abbastanza attenzione. Siamo, si dice però, ad esempio, per le materie storiche, nella media ordinaria degli studi di cui ciascuno di quegli stranieri è specialista, media, certo, bene assicurata in Italia da numerosi nostri studiosi. Non c’è nessun Le Goff o Furet o Elliott o Hobsbawm o Wolfgang Mommsen, tanto per fare nomi di studiosi eminenti, viventi e non, degli ultimi decenni. Valeva la pena di mettere su un meccanismo così roboante per giungere a un livello alla portata ordinaria degli italiani che in Italia e fuori godono di una certa considerazione, per non parlare delle eccellenze, che certo anche qui vi sono? Per di più, qualcuno di questi «stranieri» è considerato tale, pur essendo italiano, perché incardinato in università estere. Basta questo, si chiede, per credere che si sia immuni dai deprecati malvezzi italici da evitare?
Rispettando, inoltre, appieno la figura scientifica degli studiosi stranieri indicati, ci si chiede se ne sia sicura la competenza nei più diversi campi di storia italiana coltivati dagli studiosi italiani (che ancora, deo gratias, scrivono in italiano), che essi nei loro studi hanno toccato, a quanto risulta, solo per i temi di loro più diretto interesse, mentre agli studiosi italiani, anche se non specialisti, sono ovviamente più familiari.
Molti professori italiani sono stati chiamati, una o più volte, da università e istituti di ricerca stranieri nei giurì di dottorato sulla base delle loro competenze specialistiche in relazione ai temi trattati dal dottorando. Criterio sanissimo. Non pare, invece, che in altri Paesi europei si chiamino stranieri per la selezione dei docenti universitari, e, se è così, ne è anche chiaro il perché.
Si dice ancora che, in commissioni formate come ora da noi, il parere dello straniero è di fatto, in certo qual modo, privilegiato proprio per il presupposto per il quale lo si è chiamato: sarebbe l’unico parere immune dai condizionamenti italiani. Ma alcuni si chiedono anche se sia poi davvero così, visti i legami universitari ed editoriali fra quegli stranieri e vari ambienti italiani, che perciò da eventuale fattore di vantaggio per la conoscenza della nostra realtà rischierebbero di tradursi in un rafforzamento di deprecati condizionamenti.
Insomma, il sistema dello straniero in commissione non ha dato per nulla, prima facie, l’impressione di rispondere agli scopi voluti. Ora siamo in ballo, e, invero, non sono rosee le previsioni per concorsi i cui criteri sono stati criticati con argomenti forieri di molti ricorsi, e ai quali partecipa un numero di candidati molto superiore alla platea immaginabile degli studiosi italiani professionali nei vari settori a concorso. Molti credono che non si possa fare ormai altro che andare avanti. Ma, se è così, e più o meno giuste che siano le critiche correnti, un ripensamento per il futuro prossimo appare indispensabile, e certo non per difendere vecchi reami o per gretto provincialismo, come dimostra anche l’opinione negativa espressa sui più vari giornali, da quelli di destra fino all’«Unità», e neppure per opporsi per principio all’adozione di nuovi criteri di giudizio e selezione dell’attività scientifica nazionale.
(Pubblicato in – © «Corriere della Sera» – 6 dicembre 2012)