di Daniele Rocca
«I Borboni, che mai hanno brillato per la loro intelligenza, hanno avuto il torto di lasciare troppi elementi combustibili nelle loro istituzioni e di permettere che gli oratori della Camera battano con troppa insistenza la pietra focaia dell’acciarino. Presto o tardi da questa agitazione scaturirà un incendio, di cui voi potrete approfittare», diceva nel 1820 Ortensia di Beauharnais, regina d’Olanda, al figlio maggiore Carlo Luigi Napoleone, ancora dodicenne. Dopo l’imprevisto affermarsi di Luigi Filippo, Napoleone avrebbe saputo spezzare l’attendismo dei Bonaparte, puntando alla presa del potere già nel 1836. Evitatosi il carcere in seguito al fallimento del complotto, si diresse in Nord America. Prima, però, ribadì che l’esito trionfale del referendum indetto nel 1804 da Napoleone I sul principio dell’eredità dinastica lo rendeva il rappresentante della volontà popolare nel paese.
Di lì a poco, per Di Rienzo – che costruisce una biografia monumentale, ricchissima di documenti -, egli divenne un estremista di centro. Andò infatti maturando l’idea di «una struttura di potere legata al nocciolo duro di una sovranità incontrastata», che volle promuovere attraverso l’azione giornalistica e libellistica. Non solo: nella sua ininterrotta ricerca di contatti, durante l’esilio londinese, il «dandy di Berkeley Street» attuò una vera e propria «strategia del ragno». Entrò fra l’altro in comunicazione con Benjamin Disraeli, Charles Dickens, Louis Blanc e George Sand. In una lettera, la romanziera lo definiva un «uomo d’eccezione», caratterizzato da «purezza» di intenzioni. Alle elezioni del 1848, per seguire gli umori della massa si spostò a destra, verso i reduci della Monarchia di Luglio (come Francois Guizot), novelli apprendisti stregoni, certi di poterlo manovrare. E fu la vittoria.
Per la fase imperiale, Di Rienzo respinge sia la «leggenda aurea» dell’Impero «liberale», sia la «leggenda nera» di Napoleone III come Napoléon le Petit (Hugo), quindi anche l’immissione della sua esperienza nella galassia delle destre francesi. La volontà di decentramento, il liberismo volto a creare una corposa classe media con «democratizzazione del mercato del denaro» e adesione «eretica» al sansimonismo, nonché la lungimirante, seppur avventuristica, politica estera, Io inducono a ricondurre Napoleone III a una sorta di centre-gauche. Forse tale giudizio, indubbiamente audace, ne svaluta il clericalismo e si basa soprattutto sull’identificazione dei suoi oppositori meglio organizzati, i concorrenti del centro-destra (pensiamo ai seguaci orléanisti di Lucien-Anatole Prévost-Paradol), senza contare la gestione autoritaria del potere, per quanto dal 1863, in ragione dei problemi di salute dell’imperatore, a dominare la scena fosse il governo di Eugène Rouher (il cosiddetto rouhernement).
Con piglio egualmente provocatorio, Di Rienzo giudica la stessa politica estera dell’Impero, volta a creare «un Commonwealth francese», non troppo distante dalle concezioni cavouriane e mazziniane. Nello scandagliarla sulla scia di notevoli ricerche compiute in vari archivi diplomatici, rileva però come essa, oscillando fra deviazioni e continuità, determinasse il progressivo isolamento francese. Poi venne Sedan. E Napoleone III cadde. Nel 1873, alla notizia della sua scomparsa, la regina Vittoria decretò per la propria corte dodici giorni di lutto.
(Pubblicato nel numero di marzo 2011 – © «L’Indice»)