di Enrico Mannucci
Francesco Gnecchi Ruscone, nato nel 1924, era un giovanotto della buona società milanese. Famiglia borghese vissuta nel culto del Risorgimento, ostile al comunismo ma anche estranea alla retorica del fascismo. Il padre diffidava di quello stile pomposo, metteva in termini frivoli il suo rifiuto del regime: «Un signore porta camicie bianche, al massimo con righine blu, nere mai: per nessun motivo». Così era stato schedato come «elemento ostile». Il figlio aveva sedici anni quando l’Italia era entrata in guerra. Non ha tempo di andare sotto le armi prima dell’8 settembre. Allora, però, sa perfettamente che suo dovere è opporsi agli invasori. Ovvero, ormai, i tedeschi. E così, con la famiglia, comincia a darsi da fare. Dapprima aiuta a nascondere i tanti prigionieri alleati sperduti nel Nord Italia dopo l’armistizio. Poi entra nei Giovani liberali della resistenza milanese. Da lì diventa, nell’estate del 1944, un agente della rete segreta «Nemo». La sua memoria – finora nota solo attraverso una pubblicazione privata in inglese, When being italian was difficult («Quando essere italiano era difficile») – si deposita ora in un libro edito da Mursia (Missione «Nemo». Un’operazione segreta della Resistenza militare italiana) corredato e integrato dalle ricerche di Marino Viganò e Susanna Sala Massari.
Un’autobiografia che è anche un saggio su uno dei risvolti meno esplorati della Resistenza in Italia. Perché la «Nemo» – anzi, missione «Nemo Op. Stand II» – è un esempio significativo del contributo dato alla Liberazione dall’esercito italiano rimasto fedele al re, dal Sim, anzi, ossia dal servizio segreto che a lungo ha sofferto ombre di ambiguità e doppiezze non del tutto ingiustificate. A introdurre il testo, una prefazione di Tommaso Piffer, autore di studi importanti sul rapporto fra partigiani e servizi segreti alleati, nonché di una biografia di Alfredo Pizzoni, Il banchiere della Resistenza (Mondadori). Piffer sottolinea proprio questo tema, dopo aver notato al riguardo la scarsità di fonti – solo di recente sono diventati accessibili molti documenti – e, soprattutto, l’atteggiamento decisamente sospettoso degli studiosi: «La fin qui poca attenzione della storiografia su queste vicende stride con l’importanza che l’azione del Sim ebbe nella guerra di Liberazione». La «Nemo» – comandata da Emilio Elia e definita in un rapporto dell’Oss «forse la più vasta ed efficiente rete di spionaggio nel Nord Italia» – è un nucleo del «nuovo Sim», il servizio segreto militare che, peraltro, ha molti e brutti precedenti sotto il fascismo, a partire dal delitto Rosselli. È impegnata in missioni importantissime: infiltrazioni, denunce di collaborazionisti, contatti coi partigiani, controllo delle forze nemiche. È coinvolta nelle complesse trattative per la resa delle forze tedesche in Italia (un rapporto della missione, anzi, anticipa all’estate 1944 i contatti in questo senso con Eugen Dollmann, il rappresentante di Hitler in Italia). E poi ha anche compiti a raggio più largo, come la «stabilizzazione politico-sociale per il dopoguerra». In questo contesto, fra i documenti allegati, è di particolare interesse quello intitolato «Sistema distribuzione fondi Clnai», ovvero le somme che ogni mese il Cln assegna al comando generale del Corpo volontari della libertà da distribuire alle formazioni dipendenti.
Qui la missione Nemo mette in luce le criticità di un meccanismo che «porta a una netta differenziazione tra i partiti, a vantaggio esclusivo degli estremisti. Infatti, nel primo periodo insurrezionale, vennero formate quasi esclusivamente Brigate Garibaldi considerate interpolitiche. Quando il Pc rivendicò a sé le Garibaldi, gli altri partiti avviarono i loro elementi verso altre formazioni che si dovettero improvvisare. I molti elementi di altro colore politico precedentemente inviati alle Garibaldi rimasero così sotto controllo comunista». Il documento valuta fra montagne e città un pari numero di formazioni comuniste e «demo-cristiane» (sic!) e in quantità inferiore quelle riferibili agli azionisti, ai liberali, ai socialisti. I fondi sono divisi soltanto fra questi gruppi: «Alle formazioni autonome che non riconoscono il controllo di nessun partito… il Cln non provvede». Bisogna tener conto, poi, che vengono considerate a pieno organico anche antiche brigate disperse e ricostituite con forze esigue: «Questo avviene, più che non presso gli altri, presso il Pc». Il drenaggio di fondi da parte comunista gioca poi su un altro fattore sottolineato dal documento Nemo: il tipo di azioni. «Per i Comunisti è “azione” tirare una bomba da una finestra su una strada per colpire 2-3 fascisti o nazisti che vi passano. Peggio per i civili se muoiono anch’essi… E questo si dice pure per l’uccisione di un singolo fascista o milite: non importa se la selvaggia autorità dominante fucili poi dieci ostaggi…». Riportando poi uno specchietto con la ripartizione dei fondi Cln a Milano nel gennaio 1945 (1,95 milioni al Pc, 1,3 ai socialisti, 0,85 agli azionisti, 0,68 ai liberali, 0,52 ai democristiani, 0,55 ai repubblicani) si osserva, infine, come «il 71% dei fondi assegnati al Cln termina con l’essere assegnato ai partiti di sinistra».
(Pubblicato il 13 febbraio 2011 – © «Corriere della Sera»)