di Enrico Singer
La lettera è datata 12 luglio 1861. Il regno d’Italia è stato proclamato quasi quattro mesi prima, il 17 marzo. Cavour ha appena avuto il tempo di vedere realizzato il suo sogno: è morto il 6 giugno. Ed ecco che Napoleone III, il secondo imperatore dei francesi, scrive a Vittorio Emanuele II, il primo re degli italiani, per mettere nero su bianco i confini di un rapporto che ha attraversato momenti di grande sintonia e di comune azione, ma anche di grandi contrasti.
Perché se è vero che senza l’aiuto della Francia, senza le vittorie di Magenta e Solferino ottenute sugli austriaci grazie al decisivo intervento dell’Armée, l’unità del nostro Paese non si sarebbe mai fatta, è altrettanto vero che Parigi ha difeso fino all’ultimo il potere temporale di Pio IX inviando i suoi soldati in difesa dello Stato pontificio per evitare quello che sarebbe poi successo, nove anni più tardi, con l’ingresso dei bersaglieri a Roma attraverso la breccia di Porta Pia, definitivo traguardo, il 20 settembre del 1870, dell’unificazione nazionale. Nella monumentale biografia che Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia moderna all’università La Sapienza di Roma e direttore della Nuova Rivista Storica, ha dedicato a Napoleone III, questa lettera è a pagina 275 e il suo testo integrale vale più di qualsiasi racconto per cominciare a comprendere i retroscena di un pezzo così importante della nostra storia di cui, proprio adesso, stiamo celebrando il 150° anniversario. Scrive Napoleone III:
«Sono stato felice di poter riconoscere il nuovo Regno d’Italia proprio nel momento in cui Vostra Maestà perdeva, con il conte di Cavour, una personalità notevole che aveva più di ogni altra contribuito alla rinascita della sua patria. In questo modo ho voluto offrire un’ennesima prova della mia simpatia per una causa per la quale abbiamo combattuto fianco a fianco. Ma, nel ripristinare i nostri rapporti ufficiali, mi sento obbligato a esprimere alcune riserve per l’avvenire. Un governo è, infatti, sempre legato ai suoi antecedenti e il mio, da dodici anni, sostiene a Roma il potere del Santo Padre. Malgrado il mio desiderio di non occupare militarmente nessuna parte del suolo italiano. le circostanze sono sempre state tali da impedirmi di sgomberare Roma. Facendolo senza serie garanzie sarei venuto meno alla fiducia che il Capo della nostra religione aveva riposto nella protezione della Francia. Oggi la situazione non è mutata e devo dichiararvi francamente che, pur riconoscendo lo Stato italiano, io manterrò la mia armata a Roma fin tanto che Vostra Maestà non si sarà riconciliato con la Santa Sede e fin quando il Pontefice sarà minacciato di vedere quel che resta del suo dominio temporale invaso da una forza regolare o irregolare. In questa circostanza, vi prego di farvene convinto, io sono mosso soltanto dal sentimento del mio dovere. Posso anche avere avuto opinioni opposte alle vostre nel credere che le trasformazioni politiche debbano essere opera del tempo e che un’aggregazione nazionale completa non possa essere durevole che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita e, quindi, di ritenere, in una parola, che l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione. Ma questo mio convincimento in nulla ha potuto influire sulla mia condotta. Gli italiani sono i migliori giudici dei loro destini e non posso io, il cui mio potere è scaturito da un’elezione popolare, pretendere d’interferire nelle decisioni di un popolo libero».
Aldilà di tutte le vulgate che dipingono Napoleone III come un incondizionato amico dell’Italia, magari per le grazie della contessa di Castiglione che Cavour – per altro zio della giovane nobildonna – gli avrebbe spinto nel letto, il lavoro di Eugenio Di Rienzo mette per la prima volta nella corretta dimensione le luci e le ombre del ruolo che l’imperatore dei francesi ha avuto nella vicenda storica che ha portato all’unità del nostro Paese. È inutile cercare il nome di Virginia Oldoini – la contessa di Castiglione, appunto – in questo libro. Di Rienzo non si occupa del gossip d’epoca. La sua indagine è il risultato di anni di ricerche negli archivi francesi, russi, austriaci, prussiani, inglesi e, naturalmente, italiani per ricostruire le mosse e le manovre delle grandi Cancellerie: di Bismarck, di Palmerston, di Gorciakov oltre che di Cavour e del suo ambasciatore a Parigi, Costantino Nigra.
Il risultato, come scrive lo stesso autore, è una biografia narrata senza ricadere nella “leggenda aurea” o nella “leggenda nera” che tante volte si sono sovrapposte all’opera di quello che i contemporanei definirono arbiter Europae, per glorificarlo, o Napoleone il piccolo, come fece Victor Hugo, per denigrarlo. Quella che emerge è la figura di uno statista che non fu, alternativamente, un amico o un nemico dell’Italia, ma piuttosto un sovrano sempre attento prima di tutto agli interessi francesi, che vide nel nostro Paese, a volte con calcolata generosità e più spesso con cinica spregiudicatezza, una pedina del grande gioco internazionale che trasformò la geografia politica europea e che contribuì a determinare un nuovo equilibrio di potenza tra gli Stati destinato a rimanere sostanzialmente immutato fino al 1918 e, per certi versi, fino al 1945. Il disegno di Napoleone III era di costruire una grande zona d’influenza nella pianura padana per bloccare ogni velleità di espansione austriaca. Di qui l’appoggio dato alla nascita di quella che, nei suoi piani, doveva rimanere una media potenza, il Regno Sabaudo, che doveva comprendere il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, il Veneto e arrivare sino agli Appennini, escludendo la Toscana, lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Dal punto di vista francese, l’obiettivo era perfettamente comprensibile: del resto, quale Paese vedrebbe di buon occhio la nascita di una grande potenza vicina? Più che a un’Italia unita, Napoleone III pensava a una federazione di Stati italiani in cui il Papa, da Roma, avrebbe avuto la funzione di arbitro e Parigi la supremazia politica. Si è sempre detto che la Francia firmò l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), poco dopo vittoria di Solferino (24 giugno), perché aveva paura che la Prussia entrasse in guerra a fianco dell’Austria minacciando i confini renani dove erano rimaste pochissime truppe francesi. In realtà, la Prussia non aveva intenzione di sferrare un attacco alla Francia anche se fece di tutto per farlo credere e mobilitò sei corpi d’armata da spedire sul Reno. Questo Napoleone III, alleato della Russia, lo sapeva perfettamente, come dimostrano le corrispondenze diplomatiche da Pietroburgo. Accettare Villafranca, incassando comunque Nizza e la Savoia, e ridurre la campagna d’Italia a un evento di portata limitata, pur con l’importante cessione della Lombardia al Piemonte, non fu dunque un atto obbligato, ma una decisione tesa a frenare le ambizioni di Cavour. II trattato di Villafranca, che interrompeva il conflitto dopo che era stata liberata soltanto la Lombardia e non anche il Veneto come previsto dagli accordi di Plombières, fu un duro colpo. Al punto che i patrioti italiani paragonarono quell’armistizio al “tradimento” di Campoformio con il quale, nel 1797, il grande zio Napoleone Bonaparte aveva interrotto la sua campagna in Italia tenendo Milano ma lasciando, già allora, Venezia all’Austria. Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio, confessò in quell’occasione di «detestare Napoleone cagion di tanti mali al nostro Paese e vero ostacolo da superare per la conquista dell’unità nazionale». Anche dopo la Seconda guerra d’indipendenza. Napoleone III continuò a osteggiare il progetto di un’Italia completamente unita. Per esempio, dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, la Francia propose all’Inghilterra di unire le due flotte per creare un pattugliamento navale che impedisse a Garibaldi di arrivare in Calabria. L’idea di Napoleone era di mantenere i Borboni nel Sud peninsulare e offrire la Sicilia a un’altra casa regnante. Ma il più evidente segnale di ostilità al disegno unitario di Vittorio Emanuele II e di Cavour è l’interruzione delle relazioni diplomatiche successiva alla violazione dei confini dello Stato pontificio da parte dell’esercito sabaudo e alla battaglia di Castelfidardo dell’11 settembre 1860. Napoleone, d’altra parte, si rendeva conto che non poteva fare a meno delle relazioni con l’Italia che stava nascendo perché questo avrebbe significato lasciare mano libera agli inglesi.
La Francia, così, riconobbe tardivamente il nuovo Regno: arrivò dopo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e persino dopo la Turchia. Soltanto il 12 luglio 1861 l’imperatore francese scrisse a Vittorio Emanuele II quella lettera in cui si diceva «felice di poter riconoscere il nuovo Regno d’Italia», ma nello stesso tempo ribadiva che le circostanze gl’impedivano di sgomberare Roma e contestava il modo in cui si stava formando lo Stato italiano con quella frase per certi versi profetica – «un’aggregazione nazionale completa non può essere durevole che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita» – sostenendo che «l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione». L’atto finale di questa strategia arriva alla vigilia della Terza guerra d’indipendenza, nel 1866: Napoleone III, da un lato, spingeva l’Italia a entrare in guerra a fianco della Prussia contro l’Austria, ma contemporaneamente firmava con questa un accordo segreto in cui si diceva che, in caso di sconfitta dei prussiani, se in Italia si fossero verificate sollevazioni popolari per riportare sul trono i principi che regnavano prima del 1859, la Francia non avrebbe opposto resistenza. Parigi diceva esplicitamente di tenere soltanto all’integrità del territorio costituito da Piemonte, Lombardia e il Veneto che si sarebbe ricongiunto con l’Italia. La sorpresa venne dalla vittoria dell’esercito prussiano, dato invece per perdente da tutte le diplomazie europee. Francia in testa. E i bersaglieri entrarono a Roma il 20 settembre 1870, quando i francesi avevano già richiamato il loro contingente per tentare l’ultima, inutile difesa contro quei prussiani che avrebbero voluto liquidare quattro anni prima. Se questa è una sintesi dei limiti che Napoleone III tentò di imporre al processo di fondazione dello Stato italiano, Eugenio di Rienzo restituisce all’imperatore dei francesi – ancora una volta con grande ricchezza di particolari e di documenti inediti – tutti i meriti che non possono, certo, essergli negati. Anche perché, in patria, fu costretto a pagare un alto prezzo per sostenere comunque la causa italiana. All’entusiasmo popolare per la campagna d’Italia manifestato dai quadri del bonapartismo di sinistra, dagli ambienti operai, perfino dagli oppositori in esilio, si contrapponeva una reazione contraria in altri e più estesi settori della società. Le masse rurali dei dipartimenti di confine esposte al pericolo della reazione della Prussia, i vertici militari, la grande finanza rappresentata dal barone Rothschild, i seguaci della dinastia orleanista (che sostenevano i Borboni), e alcuni importanti membri del governo, compreso il ministro degli Esteri, il conte Walewski, e, soprattutto, la quasi totalità dell’opinione pubblica cattolica che era ovviamente schierata a difesa del potere temporale di Pio IX. È dal bilanciamento di questi elementi che Napoleone III determina la sua politica. Scrive Eugenio Di Rienzo che la storia del Secondo Impero fu sempre una storia globale: una storia francese, in primo luogo, ma anche compiutamente europea nella quale la voce del discendente di Napoleone il grande – per usare la definizione di Victor Hugo – si unì al coro di altre voci, a volte più potenti e meglio intonate della sua.
Lo stesso si verificò nell’azione interna – alla quale sono dedicate altre centinaia di pagine di questa monumentale biografia – che fu messa in campo dal regime nato dal colpo di Stato del dicembre 1851 con il quale Luigi Bonaparte, che era stato eletto presidente, si autoproclamò secondo imperatore dei francesi. La conclusione di Eugenio Di Rienzo è che, anche con tutte le sue ombre, Napoleone III non merita la grottesca raffigurazione di un caudillo predecessore delle grandi tirannie totalitarie del “secolo breve” appena trascorso. L’ultimo inquilino delle Tuileries fu, piuttosto, il creatore di un sistema di governo originale che non si è estinto con la fine del suo impero – il 2 settembre 1870 con la resa ai prussiani – né con la sua morte in esilio in Inghilterra il 9 gennaio del 1873. «Quel modello di governance si è riproposto, in Francia e fuori di Francia, in un passato molto prossimo e si ripropone anche nel nostro tempo tutte le volte che le disfunzioni di quella che è stata definita la “democrazia latina” sembrano poter suggerire la scorciatoia di una soluzione alternativa, fatta di antipolitica autoritaria, di leaderismo plebiscitario, populistico, carismatico». E per questo, oltre a fornire per la prima volta una chiave di lettura europea delle radici storico-politiche che hanno portato alla nascita dell’Italia unita, il libro di Eugenio Di Rienzo appare più che mai una storia attuale.
(Pubblicato il 22 gennaio 2011 – © «Liberal»)