di Luigi Mascilli Migliorini
«Arrivare troppo tardi in un mondo troppo vecchio»: quanti, tra i disorientati, giovani protagonisti dell’Occidente in declino condividerebbero oggi la frase di Alfred de Vigny, che fu, nei primi decenni dell’Ottocento romantico, la frase-bandiera degli enfants du siècle, di tutti quelli giunti, appunto, sul teatro della storia quando si erano già consumate le scene leggendarie della Rivoluzione e dell’Impero napoleonico?
Tra questi ritardatari incolpevoli e delusi era anche Luigi Napoleone, figlio terzogenito di un matrimonio infelice – quello tra Luigi, fratello del grande Imperatore e Ortensia Beauharnais, figlia dell’Imperatrice Giuseppina – e di un’epoca infelice che cancellava imbarazzato perfino il nome di Napoleone, obbligando i suoi parenti a esilii più o meno confortevoli, ma sempre rigorosamente anonimi, di qua e di là dell’Atlantico. Per lui, dunque, il problema si poneva negli stessi termini nei quali, negli stessi anni, si poneva all’eroe stendhaliano del Rosso e il Nero. Per lui, come per Julien Sorel, bisognava partire alla conquista di un posto del mondo avendo, semmai, sotto braccio, come unica guida, la laicissima Bibbia della sua generazione: il Memoriale di Sant’Elena.
Forte di un nome, oltre che di un libro, il giovane Luigi Napoleone si lanciò, così, in tre tentativi insurrezionali sospesi tra avventura e ridicolo, nei quali l’0appello al ristabilimento di un trono napoleonico in Francia si mescolava a confusi richiami alle tradizioni repubblicane e democratiche del primo Bonaparte, filtrato attraverso la lettura e la frequentazione (destinata fatalmente ad accrescere il tasso di oscurità del suo progetto politico) della scuola sansimoniana. I ripetuti fallimenti gli valsero, ovviamente, l’ostilità dell’intera parentela, preoccupata che la sua irrequietudine finisse col turbare il pacifico agio dell’esilio e irritata, soprattutto, per un giovanotto che pretendeva – come rampognava lo zio Giuseppe dall’America – «di occupare il posto dei suoi parenti senza attendere la loro morte».
Aggirandosi per le vie di Parigi nell’estate del 1847, dopo i sei anni di prigione, frutto della sua ultima, sconsiderata avventura rivoluzionaria, Luigi Napoleone (lo racconta Victor Hugo) fu scambiato per un attore allora assai celebre del Théatre français. Affronto sanguinoso per chi aveva immaginato di voler rassomigliare all’eroe di Marengo e di Austerlitz, ma segno anche di un destino singolare. La sua scelta lo obbligherà a portarsi sempre dietro il fantasma di una identità doppia, un calco seducente e scomodo che ancora Hugo battezzerà – come è noto – nella maniera più insultante: Napoleone il piccolo. È, tuttavia, nel momento in cui la modesta epopea di un enfant du siècle sembra aver toccato il suo punto più basso, che la storia volta sorprendentemente pagina. Il Quarantotto, e soprattutto i suoi postumi, portano il nipote piccolo e smanioso del grande Napoleone alla presidenza della repubblica nata dalle ceneri della monarchia orleanista e, dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, gli restituiscono un trono imperiale. Luigi Napoleone è, in questo passaggio, il protagonista di una delle vicende più interessanti della storia politica europea. E le pagine che vi dedica Di Rienzo sono tra le più dense di questa sua vasta e lavorata biografia. Il Diciotto Brumaio di Luigi Napoleone non ha, infatti, i tratti riduttivi che Marx (pur assai pensoso in quello che era accaduto) volle attribuirgli. Mai come in questo nodo si rovescia il rapporto tra lo zio e il nipote, tra il grande e il piccolo, e nel gesto politico di un raté di generazioni perdute si afferma tutta la forza di un modello originale di governo delle società contemporanee.
La democrazia plebiscitaria, sospesa tra populismo e autoritarismo, imprecisa nella sua base sociale che oscilla, infatti, nel tempo e negli umori, sedotta dall’autonomia della politica, ma esposta continuamente al rischio della sudditanza ai grandi attori dello sviluppo capitalistico, nasce allora e accompagna tutta l’esperienza di quello che si chiamerò Secondo Impero, sopravvivendo, tuttavia, alla sua fine.
Seguire, in queste pagine, il procedere storico di un modello significa doversi confrontare incessantemente con ricostruzioni, ipotesi, interpretazioni che volta a volta meriterebbero di essere discusse (penso, ad esempio, al giudizio che viene dato del rapporto tra Napoleone III e l’Italia del Risorgimento), ma che tutte insieme confortano la forza del modello stesso, al di là, appunto, della sua prima, e specifica determinazione storica. Non si può, del resto, dimenticare che non è stata solo la circostanza esteriore offerta dal bicentenario della nascita a sollecitare in questi ultimi due anni una ripresa di interesse in Francia per la figura di Napoleone III. La Francia di Sarkozy vive, infatti, una delle stagioni più problematiche delle ricorrenti versioni che nella sua storia ha assunto la democrazia plebiscitaria e ne chiede, in qualche modo, ragione al suo antico fondatore, non rassegnandosi – e qui sarebbe fertile l’incrocio con le tesi di questo libro – né alle risposte di oggi, né a quelle di allora.
(Pubblicato il 28 novembre 2010 – © «Il Sole 24 Ore»)