di Sergio Bertelli
Se questo mio intervento non fosse così breve (ma il tema davvero non richiede una più ampia trattazione) avrei potuto dividerla in due parti, intitolando la prima «Amarcord», la seconda «Sunset Boulevard».
Un vero rimpianto del tempo che fu è l’intervento di Giorgio Bocca[1], il quale dichiara di aver percepito il mutamento in atto nella società, guardando «la prima, la più inspiegabile e ridicola» delle mode, cioè «l’acconciatura dei capelli: improvvisamente gli italiani hanno cominciato a pettinarsi, anzi a spettinarsi, allo stesso modo, con ciocche di capelli a caduta sulla fronte […] tutti, ma proprio tutti, anche imprenditori, uomini politici, professionisti andavano in giro con la zazzera scomposta»[2]. Ricordate Johnny Stecchino? I problemi della Sicilia sono l’Etna e il traffico…
Questo pamphlet è tutta un’invettiva, in particolare contro Berlusconi, riportando le famose dieci domande rivolte da Giuseppe D’Avanzo (punta di diamante dell’antiberlusconismo) al Presidente del Consiglio, sul quotidiano «La Repubblica», giornale di riferimento dell’autore[3]. Confesserà poco più avanti: «Sento puzza di fascismo perenne nella retorica permissivista della repubblica, per cui chiunque faccia il suo dovere è un eroe, anche chi faccia la guerra per soldi al servizio di coloro che con la guerra fanno affari, salutati da fanfare e capi di stato dolenti» (se l’allusione è al povero Quattrocchi, c’è di che indignarsi e rabbrividire!). In realtà, gratta gratta, le tesi totalitarie della sua giovinezza, rispuntano in Bocca, quando abbiamo letto, poco più sopra, di «sovranità popolare» equiparata a «dispotismo elettorale»! Vivremmo, insomma, immersi in una «dittatura morbida», pronti «a scivolare nel sultanato»[4]. Anche se non ce ne siamo accorti, viviamo in una Italia «brutta, sporca e cattiva»[5].
Se, dopo l’aggressione a Milano in piazza Duomo, Berlusconi si domanda «ma perché mi odiano tanto?» la risposta di Bocca è pronta: «è odiato da quanti hanno voluto, hanno sperato, hanno tentato di fare dell’Italia un paese dove la legge è uguale per tutti, dove gli oppositori non sono ipso facto dei “comunisti assassini”, dove chi si oppone alle forme risorgenti di fascismo non è ipso facto un seminatore di odio, un infame, un traditore»[6]. Sta bene. Ma allora, come giudicare la vignetta di Staino apparsa su «l’Unità» dell’11 marzo 2010, dopo il disastro aereo di Smolensk: «Novantasei membri del governo polacco spariti in un colpo. – A chi troppo, a chi niente»?
«Erano dei borghesi come Togliatti, Gramsci, Longo, Bordiga a fondare e dirigere i partiti operai. Altri borghesi li ritroviamo alla guida della Resistenza e delle formazioni garibaldine. Ma anche questi non andavano ricordati per non disturbare il mito della classe operaia artefice della storia»[7]. Ah, i vecchi tempi! Quando a Torino, nel primo dopoguerra, gli operai si ritrovavano il pomeriggio della domenica lungo le strade che scendono dalla collina o arrivano dal mare, per tirare pietre o insulti ai borghesi di ritorno dalla vacanza. All’apertura della stagione teatrale al Carignano, poi gettavano uova e insulti alle signore in pelliccia. Oggi guardano la televisione delle veline e delle concorrenti a Miss Italia. Gli uomini della rivoluzione sono diventati dei conservatori che invidiano e imitano i ricchi[8]. Questo mondo che cambia è per Bocca «irriconoscibile […]. Chi ha conosciuto gli operai degli autunni caldi, i giorni dell’ira nelle fabbriche, ascolta stupito gli operai dell’era nuova: non contestano, non si oppongono, vogliono capire, sperano che i loro figli potranno partecipare alla cultura dei computer e dei transistor, delle macchine che calcolano e di quelle che lavorano senza stancarsi mai»[9]. Ancora: «Non si vedono più i tram affollati delle ore del cambio, gli operai sono arrivati in automobile e trovano i posteggi» (sic!)[10]. Bocca fa suo il lamento di Sandro Antonazzi, sindacalista lombardo, che nel dicembre del 1972 scriveva: «Cara classe operaia, tu sai come mi sono impegnato per te. Eppure oggi è come se non ci fossi più, come se tu fossi scomparsa». Il lamento si fa angoscioso, il ricordo lacerante: «L’operaio non è ricco, ma non è più quello che partiva da casa col gavettino per la colazione, è uno che mangia in mensa»[11].La conclusione è sconsolata: «Con la classe operaia scompare la sinistra»[12]. I più anziani ricorderanno «le forze oscure della reazione in agguato» di Velio Spanio (acronimo: Fodria). Ebbene, eccole ricomparire sotto la penna del vecchio Bocca. «Un’ombra lunga di destra dilaga per l’Europa. La forza oscura ma vincente di questo ritorno ai desideri e agli egoismi irrazionali spiega perché Berlusconi indichi nella piazza il motore del progresso»[13].
«Sunset boulevard» è il titolo che meglio si addice al secondo gruppo di libri che intendo prendere in esame. È noto come Alberto Asor Rosa, partito con un innovativo libro, Scrittori e popolo (1966), abbia in seguito privilegiato le grandi opere di sintesi (La cultura della Controriforma, 1974; Storia della letteratura italiana, 1985), pur non tralasciando taluni interventi di «politica culturale» (Intellettuali e classe operaia, 1973; La repubblica immaginaria. Idee e fatti dell’Italia contemporanea, 1988; Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalisse, 1992), i quali ne hanno fatto un maître à penser della nostra sinistra, attento ad allinearsi al corso politico del Pci, tanto che potei definirlo, al tempo del berlingueriano compromesso storico. Recensendo infatti la sezione Il Seicento. La nuova scienza e la crisi del barocco, per la collana diretta da Carlo Muscetta, La letteratura italiana. Storia e testi (1974)[14], notavo come Asor Rosa esaltasse il ruolo della Chiesa controriformistica, nella quale indicava «l’unica organizzazione politico-culturale in grado di assicurare lo sviluppo unitario di una linea sull’intero territorio nazionale, saldando così le provincie al centro come le diverse classi sociali fra loro», passando sotto silenzio le resistenze dei cosimiani (Gelli, Giambullari), dei patavini (Cremonini, Galileo), dei libertini (dall’Aretino a Loredan e agli Incogniti), di un Giordano Bruno, del quale Asor Rosa denunciava «l’illusione di una autonomia (fondamentalmente di stampo individualistico), di un ceto, quello intellettuale» che non aveva compreso come fosse suo dovere sottomettersi «di fronte alle esigenza di socialità» che la Chiesa avrebbe espresso (!). Non v’è dubbio che in tempi ždanoviani, quella sottomissione Asor Rosa l’avrebbe facilmente compresa!
Tornando oggi a leggere, a distanza di quattordici anni, il suo La sinistra alla prova[15], la prima impressione è di aprire un testo distante da noi anni luce. È noto come lo storico, moderna Cassandra, sia deputato a rileggere il passato, il politico a interpretare il presente. Importante, in quel saggio (e non mi sembra sia stata mai sottolineata), era la constatazione che l’intransigenza (la definirò calvinista?) di Berlinguer per il partito dell’intransigenza, al tempo del sequestro Moro, avesse cooperato «con quella decisione a far fuori […] l’unico interlocutore» sul quale il leader comunista avrebbe potuto contare. A questo proposito, sarebbe bene mettere nel conto la profonda avversione del leader comunista nei confronti di Bettino Craxi, così ben documentata dal carteggio Tatò-Berlinguer [16].
Nella sua ricostruzione degli ultimi vent’anni, Asor Rosa si poneva il problema del rapporto tra eredi del vecchio Pci e la sinistra-sinistra, rispolverando la metafora gramsciana del partito come «moderno principe» (con tutte le sue implicazioni leniniste, e mi si consenta di rinviare per questo, un’altra volta, a un mio saggio del 1972: Con gli occhiali di Lenin, Gramsci lettore di Machiavelli[17]. Ai suoi occhi, nel nuovo contesto politico creatosi dopo la svolta della Bolognina, il problema per il Pds era adesso quello del rapporto con Rifondazione comunista, «nel senso che il Pds non è tutta la sinistra, anche se ne costituisce la parte più consistente, e, se non vuole rinunciare ad essere sinistra, ha bisogno di mantenere rapporti con il resto della sinistra» [18]. Asor Rosa non poteva prevedere, nel 1996, che proprio la sinistra radicale sarebbe scomparsa nelle elezioni del 2004, e che l’estremismo si sarebbe incarnato nell’Italia dei valori dipietrista. Un estremismo, però, che Asor Rosa condivide, quando, nella successiva intervista del 2009, dichiara il terzo governo Berlusconi «figlio naturale del craxismo»[19], contraddicendo così il giudizio precedente sull’isolamento di Berlinguer quando, come s’è appena ricordato, contro Craxi, costui scelse la politica della fermezza, abbandonando Moro al suo tragico destino. Come Bocca, anche Asor Rosa vede i barbari alle porte, parla di «democrazia totalitaria», ha lo stesso atteggiamento elitario del vecchio Bocca, avverte il proprio isolamento, tacciando di «afasia culturale» una sinistra politica che, a suo giudizio, si sarebbe rifugiata «nel silenzio»[20].
Quel deficit di libertà che abbiamo riscontrato in Bocca, era già nel saggio di Asor Rosa, nel suo innato elitismo: «la democrazia è un governo delle mediocrità e vuole uomini politici mediocri»[21].
Ma il saggio del 1996 era sopra a tutto una professione di fede: «una delle esperienze più importanti della mia via è stata l’operaismo […] cioè una scelta che privilegiava decisamente la classe […] il comunismo per me era stato soprattutto il rifiuto del limite imposto dal potere, il rifiuto, cioè, di accettare che la diseguaglianze, l’ingiustizia, la sopraffazione fossero considerati e accettati come termini ineliminabili della condizione umana»[22].
Proprio all’operaismo si richiama anche Mario Tronti, in entrambi i suoi recenti interventi[23]. Il carattere velleitario del suo gruppo si manifesta in Tronti quando scrive che «l’operaismo di cui stiamo parlando fu essenzialmente una forma di rivoluzione culturale. Produsse, alla fine, non determinati eventi storici, ma significative figure di intellettuali» (sic!). L’operaismo sarebbe «un’esperienza che ha cercato di unire pensiero e pratica della politica in un ambito determinato, quello della fabbrica moderna. Alla ricerca di un soggetto forte, la classe operaia, in grado di contestare e di mettere in crisi il meccanismo della produzione capitalistica»[24].
Il programma proprio di queste mosche cocchiere, sarebbe quello di «restaurare, o forse di impiantare, un’aristocrazia di popolo post-proletaria contro la deriva presente di un populismo borghese»[25]. Ignoriamo attraverso quali forze. Non avendo, nessuno di loro, mai messo piede in fabbrica, possono chiedersi (Bocca, Asor Rosa, Tronti): «esiste ancora la classe operaia»?
Che si sia di fronte a gruppuscoli intellettuali autoreferenziali lo confessa lo stesso Tronti: «Noi intellettuali di sinistra interlocutori dei movimenti»[26]. Chi siano, lo dicono gli stessi Asor Rosa e Tronti. Il primo, richiamandosi alla breve esperienza della rivista «Laboratorio politico», edita da Einaudi tra il 1981 e il 1983 (l’elenco dei collaboratori a p. 99); Tronti enumerando i collaboratori della rivista «Quaderni rossi», uno sparuto gruppo, come lui stesso lo definisce, di «tanti piccoli cattivi maestri»[27].
Si dice che, invecchiando, i ricordi si spingano sempre più indietro. Leggendo questi pamphlets, è riaffiorato alla memoria un episodio lontano. Quando ero bambino, ricordo di aver visto, in piazza dell’Esedra, a Roma (doveva essere un Quattro novembre), dei vegliardi in pantaloni grigi, camicia rossa e uno strano copricapo rotondo con ricami d’oro, e di aver chiesto a mio padre chi mai fossero. Papà mi disse che si trattava di reduci garibaldini delle Ardenne. Una spiegazione che mi lasciò del tutto ignaro di che cosa fossero le Ardenne. Qualche decennio dopo, ormai cresciutello, mi occorse di vedere, questa volta in Francia, altri signori anziani, con una strana bustina in testa, chiusa da una nappa sul davanti, recarsi con fanfara davanti al monumento ai caduti della prima Guerra mondiale (doveva essere un undici novembre, anniversario dell’armistizio del 1918).
Ecco, penso che dovremmo inventare un qualcosa di simile per i reduci del comunismo. Una bustina con la stella rossa in punta e con frange dorate. La potrebbero indossare (il Sette novembre, anniversario della rivoluzione d’Ottobre?) Giorgio Bocca, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti. Perché tali essi appaiono, ancient combattants, nei loro ultimi libri.