di Eugenio Di Rienzo
Il 25 maggio 1996 moriva Renzo De Felice. Con la sua scomparsa veniva meno non soltanto uno dei più grandi storici italiani della seconda metà del Novecento, ma anche una personalità pubblica che, per tempra morale e coraggio intellettuale, rappresentò a lungo uno dei più acuti interpreti del suo tempo. Per ricordare il ventennale della scomparsa di Renzo De Felice, il prossimo 23 maggio, il Dipartimento di Scienze Politiche della Facoltà Scienze politiche, Sociologia, Comunicazione della Sapienza ha organizzato un incontro di studi per ricordare lo storico che terminò la sua carriera accademica in quella Facoltà. All’incontro parteciperanno Giuseppe Conti, Francesco D’Ovidio Lefebvre, Alessandro Guerra, Mario Toscano, Luca Scuccimarra, Paolo Simoncelli, Eugenio Di Rienzo, di cui qui pubblichiamo un estratto dell’intervento che sarà pronunciato in quell’occasione.
Tra fine 1987 e inizio 1988, Renzo De Felice, rilasciava due interviste al «Corriere della Sera», su antifascismo e Costituzione repubblicana, che molto rumore e scandalo suscitarono nel mondo politico e intellettuale italiano. In margine a quelle polemiche, il 22 febbraio 1988, il suo intervistatore, Giuliano Ferrara, scriveva allo storico:
«Mi faccio vivo al ritorno di un viaggio per esprimerle, sia pure in ritardo, un sentimento di stima e di viva gratitudine. Lei è stato con me, da intervistato a intervistatore, di una correttezza assoluta ed esemplare. Ma molti, troppi, direi, l’avevano invitata, sin dal primo momento, a correggere il tiro, a prendere qualche distanza, a non offrire pretesti per una risibile campagna di insinuazioni, a proposito delle “indicazioni” politiche del redattore del “Corriere” al quale aveva concesso il discusso colloquio. La perfezione del suo comportamento e l’eleganza della sua scelta di replicare ai critici con una seconda intervista mi hanno sbalordito. E’ un caso di sicurezza di sé, di serenità d’animo e di fiducia delle idee, di cui ormai, purtroppo, è rarissimo trovare esempio nel mondo politico e in quello intellettuale. La ringrazio e spero che i nostri colloqui professionali abbiano un seguito intellettuale e professionale».
Di quella «serenità d’animo», di quella fiducia nelle proprie idee, ben altre prove aveva fornito De Felice per superare gli ostacoli – di natura accademica, editoriale e istituzionale – che molti gli opposero. Noto è il linciaggio giornalistico che fece seguito all’apparire dell’Intervista sul fascismo del 1975. Linciaggio che provocò, il 19 luglio di quell’anno, l’indignata reazione di Rosario Romeo sulle pagine del «Giornale Nuovo» di Montanelli, dove si ricordava che lo studioso era stato additato alla «pubblica esecrazione», quasi che la «sua opera spianasse la via a chissà quali restaurazioni del fascismo: e questo in un paese dove l’avvento al potere del partito comunista è questione di viva attualità».
Nota è anche l’insofferenza di alcuni collaboratori della casa editrice Einaudi per la pubblicazione del primo volume della vita politica di Mussolini, che pure aveva avuto l’autorevolissimo avallo di Delio Cantimori. Ormai divulgato, è l’episodio del rifiuto di De Felice di collaborare ulteriormente alla stesura delle voci del Dizionario Biografico degli Italiani, una volta accertato l’intervento censorio da parte del responsabile della sezione di storia contemporanea (Piero Craveri) sulla voce «Arturo Bocchini», redatta da Piero Melograni, dove erano riportati alcuni giudizi di esuli antifascisti sulla «correttezza amministrativa» del massimo responsabile dell’apparato poliziesco del regime dal 1926 al 1940. Un atto, questo, che provocava la ferma reazione di De Felice, nella lettera indirizzata al direttore dell’opera Alberto Maria Ghisalberti, il 19 dicembre 1969, con la quale si motivava la decisione di non voler continuare la collaborazione col Dizionario «a causa dell’impossibilità di conciliare le mie idee su come trattare i problemi di storia contemporanea con i criteri di giudizio che animano la redazione competente per questo genere di voci».
Altro poi si deve aggiungere sulle violente contestazioni studentesche, di cui fu fatto oggetto di De Felice, nel 1988, nel 1991 poi ancora nel 1992, che in nome di un antifascismo confuso e piazzaiolo furono guidate da demagoghi come il leader di Lotta Continua Paolo Cento. Contestazioni, a chiaro sfondo delinquenziale, alle quali il mondo politico e intellettuale italiano non seppero opporre allora né poi un’adeguata reazione, salvo alcune significative eccezioni: Indro Montanelli, Fausto Cohen, Giorgio Amendola, Gerardo Chiaromonte, Lucio Villari, Franco Fortini, Giorgio Israel, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Gian Enrico Rusconi, François Furet, Nicola Matteucci che nel novembre 2005 definì De Felice «non solo un perseguitato sul piano culturale, ma anche un perseguitato nella sua vita privata». Con grande vigore fu il solo Leo Valiani, accanto a Romeo, a sfidare il clima avvelenato degli «anni di piombo» e a intervenire, sul «Corriere della Sera» del 23 novembre 1992, con un articolo significativamente intitolato Non toccate De Felice!, dove scriveva:
«Apprendiamo dal “Manifesto” che alcuni studenti, pur sapendo che De Felice è il massimo studioso della storia degli ebrei in Italia, contestano la sua idoneità a una prolusione accademica su questo tema alla quale saranno presenti il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del Senato Giovanni Spadolini e il rabbino capo di Roma Elio Toaff. Gli rimproverano di aver iniziato, con la sua biografia di Mussolini e con altri scritti, una revisione storiografica che, a loro avviso, si inserirebbe in una corrente internazionale di rivalutazione del fascismo e del nazismo. Ma proprio la netta condanna dell’antisemitismo, ribadita da De Felice, dimostra che questa affermazione è calunniosa. De Felice è un grande storico. Egli non pretende che si sia sempre d’accordo con lui. Io stesso ho espresso delle critiche a taluni giudizi contenuti nei suoi libri. Sono, tuttavia, da sempre sincero estimatore del fondamentale apporto storiografico di De Felice alla approfondita conoscenza del ventennio e della vita del suo capo. Dall’attenta lettura delle opere di De Felice e dalla meditazione su di esse tutti hanno qualche cosa da imparare. Le sue lezioni sono degne di esser ascoltate. Uno dei peggiori misfatti del fascismo fu di manganellare i critici che aveva, invece di ascoltarli. Lo storico, però, non ha il compito di infierire sui nemici del passato. Deve comprenderli».
Questa sistematica forma d’intimidazione squadrista, che già nel 1979 avevano costretto De Felice a emigrare dalla Facoltà di Lettere della Sapienza a quella di Scienze Politiche, da lui ritenuta a torto più tranquilla e meno politicizzata, culminarono, nella notte del 15 febbraio 1996, in un attentato dinamitardo contro la sua abitazione che fu fatta oggetto del lancio di due bombe molotov. Né De Felice, allora ricoverato in una clinica per accertamenti sulla malattia che tre mesi dopo lo avrebbe portato alla morte, né la moglie Livia, figlia di Guido De Ruggiero, riportarono offese da quell’agguato che risparmiò anche la preziosa biblioteca dello storico. Aperte le indagini, la Digos romana rivolse la sua attenzione verso i collettivi studenteschi di Scienze politiche, che nei giorni precedenti avevano lasciato sulla cattedra di De Felice – da tempo assente dall’università per motivi di salute – copie di un volantino provocatoriamente intitolato Rosso e Rosso, dove il libro-intervista di De Felice Rosso e Nero del 1995 era definito «l’ultima pallottola sparata alle spalle della nostra memoria storica, un prolungamento delle torture che i comunisti e i partigiani subivano dai boia fascisti di via Tasso».
Oggi i tempi appaiono cambiati e anzi, da parte degli stessi esponenti della «sinistra storiografica», che pronunciarono il «crucifige!» contro De Felice, si sono manifestati segni di apertura verso la sua opera. Certo alcuni storici, come Sergio Luzzatto e Gustavo Corni, questo ultimo in un pretenzioso e quasi diffamatorio libello, pubblicato nel 2011, dalla Salerno Editrice, continuano a ritenere i suoi scritti politicamente pericolosi per aver addirittura accelerato l’involuzione autoritaria del sistema politico italiano. Eppure, Nicola Tranfaglia, che nel passato aveva accusato De Felice di aver inferto una «pugnalata alle spalle» alla coscienza antifascista, lo ha definito, un decennio fa, «un gran ricercatore di storia sul piano dell’interpretazione», limitando la sua critica alla «insufficiente chiarezza impiegata nella metodologia». Sempre nel suo intervento, apparso sull’«Unità» del 2 dicembre 2006, confessava che l’opus magnum su Mussolini gli aveva fatto comprendere l’adesione degli italiani al fascismo troppo a lungo ingiustamente sottovalutata e che «sui rapporti tra il socialismo e il fascismo sicuramente la sua analisi ha segnato accenti ricchi di innovazione».
Anche un altro intellettuale embedded, come Salvatore Lupo, autore di un’interpretazione del fascismo radicalmente alternativa a quella del biografo di Mussolini, ha elogiato la produzione scientifica di De Felice, aggiungendo però che la sua maestria nella ricerca storica era in buona parte dovuta alla passata militanza giovanile nel Pci, dal quale, occorre ricordare, lo storico uscì sdegnato, insieme a molti altri intellettuali, dopo la tragedia ungherese del 1956. Analoghe testimoniane di desistenza dalla guerra civile storiografica, che, per decenni aveva opposto De Felice all’inteligencja del Pci e ai suoi numerosi compagnons de route sono state rese, pur tra grandi e meno grandi prese di distanza, da Norberto Bobbio, Claudio Pavone, Denis Mack Smith, Giorgio Bocca e persino, con qualche residuale mugugno, dalla tetragona triade torinese composta da Giovanni De Luna, Marco Revelli, Angelo D’Orsi. Quest’ultimo, in un articolo apparso su «La Stampa», il 29 novembre 2006, è stato costretto, infine, ad ammettere che:
«Sebbene egli si sia fatto condizionare dalle proprie passioni [sic!], si può riconoscere che la risposta oppostagli da molta storiografia di sinistra fu per lo più debole negli argomenti. A De Felice, va comunque attribuito il merito indubbio di essersi messo allo studio del Ventennio e del Duce con un’ottica che voleva superare l’inevitabile e giusta contrapposizione fascismo/antifascismo, andare cioè oltre la damnatio memoriae del tiranno, oltre la “resa dei conti”, e cominciare a lavorare davvero sui documenti per fare autentica storia».
Dubito che questa postuma, difficile dire quanto sincera, “riabilitazione” abbia potuto soddisfare Renzo De Felice che in intervista concessa a Dario Fertilio, per il «Corriere,» l’11 gennaio 1995, affermava con malcelata amarezza che: «Se si volesse rievocare il mio caso potrei fornire un’ampia documentazione di quel che si è detto e scritto su di me. Compresa la parte non semplicemente negativa, ma anche triviale e intimidatoria» nella quale i politici sono stati, comunque, più accorti degli intellettuali». Eppure proprio negli ultimi anni della sua esistenza, lo storico dovette ricordare di aver avuto estimatori anche tra chi non condivideva per intero la sua analisi del passato e che «a viso aperto» lo aveva combattuto Si trattava, però, di personalità alte e nobili, Delio Cantimori, Franco Venturi, Alessandro Galante Garrone, Leo Valiani.
Fu il partigiano «Giuseppe Federico», nom de bataille di Valiani durante la resistenza, a indirizzare a De Felice, il 16 giugno del 1967, una corrispondenza dove si riconosceva l’impossibilità di fare storia del passato, basandosi sulla memoria appassionata dei protagonisti. Era proprio chi aveva assunto una posizione di grande responsabilità nel Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, tra 1944 e 1945, a sostenere, che come Salvemini, autore di una durissima requisitoria contro Giolitti, non poteva essere storico attendibile dell’età giolittiana, l’interpretazione del fascismo non doveva fondarsi sulla visione mitologica elaborata da antifascisti o da reduci del regime di Salò.
Da questo punto di vista, né le «storie fasciste» della guerra civile, né i contributi storiografici di esponenti del Pci e dei militanti del Partito d’Azione sul Ventennio potevano costituire analisi obiettive di quella drammatica stagione. Nel finale della lettera, Valiani, con grande onestà intellettuale, così scriveva a De Felice, che da poche settimane aveva pubblicato Mussolini il fascista. La conquista del potere (1921-1925), secondo tomo della monumentale biografia dell’inquilino di Palazzo Venezia:
«Ho chiesto a Venturi, che ha volentieri accettato, di lasciarmi aprire, nel n. II, 1967 della “Rivista Storica Italiana”, una discussione sui tuoi volumi e in quell’occasione avrò lo spazio necessario per dire anche tutto il bene che penso della tua opera che, al di là dei singoli punti di dissenso (non evitabili per la diversità di generazione e di esperienza che corre fra me e Te) mi sembra un’opera fondamentale. La Tua obiettività nei confronti del fascismo mi può lì per lì perfino irritare, ma come io stesso, nei confronti dell’età giolittiana, do ragione all’obiettività di Valeri o Salvatorelli rispetto alla passionalità di Salvemini, così gli studiosi del 1980 daranno probabilmente ragione alla Tua obiettività, Quel che noi, che abbiamo necessariamente ancora una certa posizione passionale nei confronti del Fascismo, possiamo fare di utile, è di segnalarti anche con critiche (e così io ho fatto), quel che sappiamo per esperienza sofferta, e che tu puoi non aver avvertito, dovendoti basare su fonti così sovente ingannevoli, anzi costruite ad arte allo scopo di trarre in inganno».
Come dire, che il «reducismo» di una parte e dell’altra, se era al più in grado di alimentare i fuochi fatui di una memoria divisa, restava invece estraneo alla possibilità di fare storia a parte intera, che certo mai poteva essere attività bipartisan ma che deontologicamente si doveva sforzare di temperare l’ardore delle tendenze settarie. In definitiva fu questa la più grande lezione di De Felice, impartita con il suo magistero e con la testimonianza della sua «vita difficile», che lo storico sintetizzò in una frase vergata poco prima della sua scomparsa.
«Lo storico non può essere unilaterale, non può negare aprioristicamente le “ragioni” di una parte e far proprie quelle di un’altra. Può contestarle, non prima, però, di averle capite e valutate».
(Pubblicato il 7 maggio 2016 – © «Il Corriere della Sera»)