di Guglielmo Salotti
Forse nemmeno Gabriele D’Annunzio avrebbe potuto immaginare la fortuna negli anni arrisa a un’espressione («vittoria mutilata») presente nel titolo di un suo articolo («Vittoria nostra non sarai mutilata»), apparso il 24 ottobre 1918 sul «Corriere della Sera». Senza porsi, a dire il vero, un preciso programma politico (come in fondo accadrà poco meno di un anno dopo con la marcia di Ronchi), il Poeta aveva finemente intuito una reale condizione del giovane Stato italiano, che affondava le proprie non ancora consolidate radici nel processo unitario avviatosi nel 1861 e che nell’evento bellico in fase conclusiva nell’ottobre 1918 aveva conosciuto (superandolo) il proprio «battesimo del fuoco». Su quella condizione, destinata a trascinarsi nel tempo ora come mito, ora come espressione di un nazionalismo esasperato (nella prospettiva di una più ambiziosa collocazione internazionale dell’Italia), addirittura come improbabile anticipazione del Fascismo, si sofferma il saggio di Paolo Soave, docente di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Bologna. L’ammissione di una «vittoria mutilata» figlia anche di una evidente impreparazione (militare, diplomatica, economica) dello Stato italiano, non deve tuttavia trasformarsi nell’ennesima autoflagellazione della storiografia nostrana, troppo spesso passiva di fronte a pretestuose interpretazioni di parte che nel tempo hanno cercato di svilire il contributo italiano alla vittoria nel 1918, spacciata, con una certa arroganza, per il risultato dello sforzo anglo-francese e del soccorso americano. Soltanto in un caso le accuse di «egoismo» più volte lanciate dagli Alleati all’Italia, durante il conflitto e nel corso della Conferenza parigina di Pace, possono obiettivamente apparire giustificate, anche perché il momento (subito dopo la firma del Patto di Londra) non depose favorevolmente sull’affidabilità del Governo di Roma. Per oltre un anno, dopo gli accordi dell’aprile 1915 e l’entrata in guerra in maggio, l’Italia aveva infatti tergiversato sulla dichiarazione di guerra alla Germania (suo miglior partner commerciale europeo), avvenuta soltanto il 26 agosto 1916, nell’ingenua speranza, forse, che fosse Berlino a trarla d’impaccio anticipando tale passo. È vero che il nemico «storico» dell’Italia era l’Austria-Ungheria e che motivazioni di ordine militare ed economico consigliavano Roma a limitare l’impegno bellico; ma é altrettanto vero che il Patto di Londra non faceva a questo riguardo distinzioni sulla «scelta» degli avversari (se mai, per il resto dell’Intesa, era la Germania ben più dell’Impero Asburgico a rappresentare la maggiore fonte di pericolo). Da qui tutta una serie di sollecitazioni – al limite a volte del «ricatto» vero e proprio – da parte degli Alleati nei confronti di un’Italia a lungo piuttosto recalcitrante, al punto da far sorgere in alcuni di essi il sospetto (quanto fondato è difficile stabilire) di pressioni esercitate su Roma da una lobby economica tedesca collegata alla Banca Commerciale Italiana di Giuseppe Toeplitz (fondata con capitale germanico e detentrice di fatto del monopolio delle industrie italiane).
Meno pressanti risulteranno le preoccupazioni dell’Intesa per le vicende politiche interne italiane (anche perché obiettivamente più difficili da contrastare), in cui i dispacci diplomatici vollero a volte leggere l’affacciarsi di pericolose tentazioni neutraliste e al disimpegno, dietro le quali non si faticava a individuare la longa manus di Giolitti. Di sostanziale incomprensione da parte degli Alleati si deve invece parlare per l’insistenza italiana sulla necessità di contare su una adeguata linea difensiva ai confini orientali, soprattutto in presenza, alla fine del conflitto, di una nuova realtà (che il Patto di Londra non poteva certo prevedere nel 1915) come quella, decisamente ostile all’Italia, della Jugoslavia (insieme alla Cecoslovacchia, una delle «invenzioni multietniche» partorite dalla fervida fantasia del presidente americano Wilson). Non si trattava tanto di pretese imperialiste ed egoistiche, come a più riprese le avrebbero bollate gli Alleati, quanto di una inderogabile necessità, posta in luce sin dal marzo 1915 dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino all’ambasciatore a Londra Guglielmo Imperiali, «di liberarci dalla intollerabile situazione attuale di inferiorità nell’Adriatico di fronte all’Austria per effetto della grande diversità delle condizioni fisiche e geografiche delle due sponde dal punto di vista della offesa e della difesa militare». Da qui l’insistenza di Sonnino sulla funzione strategica della Dalmazia, aggiungendo – con acuta preveggenza, in un momento in cui la firma del Patto di Londra non era oltretutto così scontata e ben pochi osservatori potevano ipotizzare un crollo dell’Impero Asburgico al termine del conflitto – che l’Italia avrebbe potuto «probabilmente conseguire la maggior parte dei desiderata nazionali con un semplice impegno di mantenere la neutralità e senza esporsi ai terribili rischi e danni di una guerra. Ora non varrebbe la pena di mettersi in guerra per liberarsi dal prepotente predominio austriaco nell’Adriatico, quando dovessimo ricadere subito dopo nelle stesse condizioni d’inferiorità e di costante pericolo di fronte alla Lega dei gidvani ambiziosi Stati jugoslavi».
Alla convinzione di una insopprimibile funzione strategica della Dalmazia nella difesa della sponda occidentale dell’Adriatico Sonnino rimase fedele durante il conflitto e nel corso dei travagliati lavori della Conferenza di Pace, il che non avrebbe fatto altro che acuire Io scontro, spesso drammatico, tra la sua visione diplomatica di vecchio stampo europeo e la New Diplomacy wilsoniana. Si faceva forte, Sonni no, del parere favorevole espresso al riguardo sin dall’inizio dai vertici della Marina, trascurando però al contempo le forti (e ben più realistiche) perplessità prospettate da parte dell’Esercito circa le difficoltà cui sarebbe andata incontro una difesa di insediamenti italiani a troppo stretto contatto con un entroterra a maggioranza slava. Si spingeva, il ministro degli Esteri, a contestare l’entità numerica stessa di quella maggioranza (frutto a suo parere di un pluridecennale «perseverante lavoro di denazionalizzazione» condotto dall’Austria), e a dimostrarsi comunque disponibile all’ipotesi di concessioni di sbocchi marittimi agli slavi, ma soltanto se controbilanciati da analoghi sacrifici da parte loro. Fermo restando, ovviamente, il principio inderogabile che il dominio dell’Adriatico era per l’Italia «questione di vita o di morte».
Posizioni che riflettevano quelle degli ambienti nazionalisti (che pure, prima della guerra, avevano espresso, per bocca di Enrico Corradini, la ferma decisione di rimanere fuori dalla «pozzanghera adriatica»), come emerse sul finire del marzo 1917 dai lavori, a Roma, del Congresso straordinario dell’Associazione «Trento Trieste» (i cui Atti furono pubblicati, in quello stesso anno, nei volumi «L’Adriatico», curato da Giovanni Colonna di Cesarò, Carlo Corsi, Mario Alberti e Armando Hodnig, e «L’Alto Adige»). Ancora di più della questione dell’Alto Adige (di cui fu in ogni caso affermata da Ettore Tolomei la necessità, militare e politica, di una annessione all’Italia, con le popolazioni di lingua tedesca poste di fronte all’opzione di emigrare in terra germanica odi «acconciarsi a lenta trasformazione sotto il dominio italiano»), fu soprattutto quella adriatica a tenere banco, come «causa di inevitabile conflitto fra Austria e Italia» secondo Colonna di Cesarò, che trovava conforto anche in motivazioni di ordine economico e politico. Se era indubbio che l’industria della Dalmazia fosse in buona parte in mani italiane, o alimentata da capitali italiani, sul piano politico all’Italia sarebbe spettato il compito di porsi come punto di riferimento per le piccole nazionalità balcaniche in funzione antiaustriaca; il che escludeva di fatto sue tentazioni imperialistiche, contestatele da ambienti politici sia stranieri che interni. Su questo stesso tema – tante volte agitato polemicamente contro l’Italia dai Paesi dell’Intesa – si sarebbe soffermato Carlo Corsi: «Imperialismo – sostenne – significa espansione a danno altrui, prendendo sempre e oltre a ciò che ci spetta. Volersi difendere non è imperialismo: la difesa è un diritto sacrosanto, e il possesso della sponda orientale dell’Adriatico fino a Cattaro è per noi questione di difesa […] La Dalmazia è […] per noi un possesso di difesa e per il nemico un possesso solo di offesa».
Per certi versi, l’insistenza degli ambienti nazionalisti sulla questione adriatica intendeva aprire, anche agli occhi dell’opinione pubblica, un capitolo nuovo, poco battuto, sino ad allora, da un irredentismo troppo «chiuso nella formula semplicistica: Trento e Trieste» per poter sviscerare a pieno la questione «più grande e più organica del Mediterraneo orientale», come aveva scritto nel novembre 1916 sulla «Nuova Antologia» lo stesso Colonna di Cesarò («Per la Dalmazia italiana. A proposito di una imminente pubblicazione»). Il che, a suo parere, aveva finito per far scalare in secondo piano non solo il problema della Dalmazia, ma anche quello dell’Istria; non ché – secondo l’analisi di Armando Hodnig in «Fiume italiana e la sua funzione antigermanica» del 1917 – quello di Fiume, vista come naturale antemurale al germanesimo, sia dal punto di vista culturale che da quello economico. «Chiave di possesso dell’Adriatico», in una posizione non di rivalità ma di complementarietà di funzioni con il porto di Trieste, Fiume rappresentava per Hodnig «un potente e delicato strumento di difesa economica contro la Medieuropa, e […] l’affidarlo a mani deboli e malsicure sarebbe errore pericoloso e pieno d’imprevedibili conseguenze».
Non fu comunque la sola questione adriatica – per quanto emotivamente sentita e fondamentale sul piano strategico per la difesa terrestre e navale del Paese – a incrinare ulteriormente i rapporti fra Italia e Intesa, già tutt’altro che lineari durante e dopo la guerra, anche a livello storiografico (bene li coglierà nel 1992 Luca Riccardi nell’immagine «alleati non amici»). Del resto, fu un po’tutta l’Intesa a dover fare i conti con un clima di reciproca diffidenza -frutto che fosse di «scorie» accumulatesi in un passato più o meno recente o di uno scontro sotterraneo, già in atto a conflitto in corso, sui progetti post-bellici – che contrassegnò e ammorbò i rapporti fra i suoi membri. Per certi versi, i due avvenimenti basilari del 1917 – l’entrata in guerra degli Stati Uniti e la defezione della Russia dopo la rivoluzione bolscevica – avrebbero finito per accentuare in particolare lo stato di isolamento diplomatico dell’Italia e di acuire i problemi di natura prettamente militare (emersi poi a pieno a Caporetto). A Roma ci si rendeva conto di come l’atteggiamento demagogico di Wilson rischiasse di rimettere in discussione gli accordi precedentemente raggiunti dai contraenti dell’Intesa, a cominciare dal Patto di Londra, che il presidente americano vedeva come il fumo negli occhi. Quanto all’evento di Caporetto in sé, al di là delle sue cause militari e dei riflessi della situazione interna del Paese, esso dimostrava anche come l’Intesa non avesse compreso la necessità di adottare adeguate contromisure contro la ben prevedibile accentuata pressione austriaca sul fronte italiano in seguito alle vicende russe.
Un ruolo preminente (anche se obiettivamente non esclusivo, non volendosi certo «colpevolizzare» una sola persona) sugli avvenimenti e sugli stessi rapporti di forza all’interno dell’Intesa lo avrebbe in ogni modo giocato il presidente americano Wilson (in cui a suo tempo Salvemini aveva visto il «Mazzini del secolo XX», per doversi poi amaramente ricredere), tanto osannato ancora oggi dai «pacifisti per professione» benché sia da considerare fra i principali responsabili di pericolose anomalie riscontrabili nella sistemazione dell’Europa tra le due guerre («focolai» destinati a sprigionare nuovamente i propri letali virus meno di vent’anni dopo), trovatosi spesso in patente contraddizione con la stessa tanto strombazzata «autodeterminazione dei popoli» e con la non meno sbandierata necessità di una pace giusta e non vendicativa [la posizione tutt’altro che «pacifista» di Wilson riguardo i finanziamenti privati statunitensi alle potenze belligeranti nel 1915 è anche alla base dell’allargamento del conflitto e alla sua radicalizzazione in guerra totale. Wilson giunse a far dimettere il suo primo segretario di Stato, William J. Bryan, che invece lo aveva avvisato che con un embargo sui prestiti si sarebbe potuto far cessare il conflitto europeo per mancanza di finanziamenti. Vedi «Storia in Rete» n. 137-138 NdR]. Con alle spalle una ben scarsa conoscenza della storia diplomatica europea (in particolare dell’importanza che avevano in essa rivestito gli accordi segreti, da lui invece letteralmente aborriti), Wilson non si era fatto mancare anche cadute di stile con alcuni suoi interlocutori europei. A farne le spese furono fra gli altri il governo italiano e la sua delegazione presente a Parigi, messi praticamente alla berlina da Wilson in un messaggio indirizzato direttamente al popolo italiano, pubblicato sul francese «Le Temps» il 23 aprile 1919. Iniziativa quanto mai improvvida e sconcertante, che altri risultati non ottenne se non quelli di creare un clima di «union sacrée» intorno a Vittorio Emanuele Orlando e al suo governo, di alienare al presidente americano le residue simpatie riscosse in Italia a livello di opinione pubblica e di forze politiche (come gli interventisti democratici) lontane dalle posizioni nazionaliste; e, più in generale, di sommare alla rabbia dei vinti la non meno rancorosa delusione di alcuni vincitori.
Ne trasse ulteriore linfa il mito della «Vittoria mutilata», in cui, come rileva Soave, «l’intero Paese sembrò ritrovarsi», mentre fu facile per l’estro di D’Annunzio coniare per Wilson l’ennesimo epiteto ingiurioso («tristo quacquero incroatato»), che per qualche giorno arrivò a turbare le relazioni diplomatiche fra Roma e Washington. Ricadute negative che non scalfiranno più di tanto il convincimento di Wilson di aver semplicemente compiuto il proprio dovere appellandosi direttamente al popolo italiano («politicamente immaturo» a suo insindacabile parere), dicendosi certo, in un successivo colloquio con Guglielmo Marconi, che la storia gli avrebbe dato ragione. Ferma e secca sarebbe stata la replica di Marconi, secondo cui il popolo italiano si trovava sulla stessa lunghezza d’onda del proprio governo in tema di rivendicazioni nazionali. Il protagonismo imposto da Wilson durante i lavori della Conferenza di Pace – sarcasticamente Clemenceau osserverà che, rispetto ai «Quattordici punti» del programma del presidente americano, Dio si era limitato a dare agli uomini solo dieci Comandamenti – finì per fornire un prezioso alibi a Gran Bretagna e Francia soprattutto per respingere le richieste italiane (con Lloyd George impegnato in particolare nella tutela dell’Impero e Clemenceau volto a bloccare l’influenza di Roma nei Balcani). Ma al tempo stesso si sarebbe dimostrato privo di una visione lungimirante (quella di cui avrebbe invece dato prova il tanto vituperato Sonnino circa i rapporti dell’Italia con gli ex nemici, Germania in testa), a riprova di come l’affiato religioso da cui il presidente americano si sentiva investito ben poco si combinasse con le leggi della politica.
(Pubblicato in © «Storia in Rete» – Marzo 2021)