di Eugenio Di Rienzo ed Emilio Gin
Anche Washington monitorava in quegli stessi mesi, con crescente sospetto, le voci sul riallacciarsi di sotterranei rapporti tra Mosca e Berlino finalizzati a ritornare alla sistemazione territoriale del giugno 1941. Il 21 gennaio 1943 l’ambasciatore statunitense a Berna, Leland B. Harrison, informava il Segretario di Stato che ufficiali italiani inviati in licenza dal fronte orientale, perle festività natalizie, avevano sostenuto che ai loro commilitoni tedeschi era stato impartito l’ordine di non far ritorno alle loro unità ma di dirigersi «in alcune zone del Reich e della Francia nel caso fosse stato stipulato un armistizio con la Russia». Altre voci, non destituite di fondamento, provenienti da Madrid, asserivano, inoltre, che «dalla metà di dicembre, autorevoli personalità stavano trattando la pace separata tra URSS e Germania in modo da disimpegnare un forte contingente tedesco dalla zona di operazioni russa al quale la Spagna sarebbe stata costretta a concedere l’ingresso nel proprio territorio per consentire alla Wehrmacht di apprestare una forte linea di difesa sui Pirenei, in caso di uno sbarco degli Alleati sulle coste iberiche». (…) Con molta cautela Harrison aggiungeva comunque che, sebbene fosse verosimile che Berlino non avesse rinunciato al proposito di stipulare una sospensione delle ostilità con Mosca, come dimostravano i sondaggi degli ultimi mesi per raggiungere tale obiettivo, le notizie fin qui raccolte potevano essere anche interpretate come una manovra di contro-informazione orchestrata dall’intelligence germanica per ottenere un duplice risultato. Era, infatti, verosimile che, diffondendo quei «rumours», il governo tedesco si proponesse, allo stesso tempo, di alleviare il morale del fronte interno con la speranza di una prossima fine delle ostilità a Oriente e di scatenare una offensiva psicologica contro Nazioni neutrali come la Spagna e la Svizzera. Più dettagliato era il contenuto del dispaccio inviato a Cordell Hull [il Segretario di Stato Usa, NdR] dallo chargé daffaires in Finlandia, Robert Mills McClintock, l’8 febbraio, dove si rivelava che l’attaché militare di Vichy, il colonnello Paul Ollivier, aveva appreso da numerosi informatori che «Ribbentrop considerava con favore una pace di compromesso tra Germania e Russia, basata sull’ipotesi di restituire all’URSS le frontiere del 1941 ». Secondo Ollivier, le speranze del Reichsminister si basavano sul fatto che «i firmatari del Patto di non aggressione del 1939 erano ancora al potere in entrambi i Paesi e che essi potevano essere inclini ad accettare l’idea di ritornare alla passata intesa». Alle perplessità di McClintock il quale aveva obiettato che «tale ragionamento sembrava ignorare che, nel frattempo, si era scatenata una guerra terribile di proporzioni immense», il suo interlocutore aveva replicato di condividere questa obiezione ma di ritenere anche che «nessuno sarebbe stato mai in grado di sapere cosa in realtà pensassero di fare i russi».
Dubbi ancora più consistenti sulla cattiva salute dei rapporti tra le Potenze atlantiche e l’URSS erano espressi dalla corrispondenza dell’ambasciatore statunitense William Harrison Standley del 12 febbraio, con la quale si riassumevano i timori della diplomazia internazionale sull’evoluzione della «politica estera russa al termine del conflitto». Quantunque i rappresentanti accreditati presso il Cremlino concordassero sul fatto che «una piena e amichevole cooperazione col resto del mondo sarebbe stata utile agli interessi economici, sociali e politici della Russia», essi nutrivano ormai forti dubbi che una tale politica potesse rientrare negli obiettivi della dirigenza sovietica. Di questa opinione era l’ambasciatore afgano, Ahmed Khan, il quale aveva confidato a Standley che, «sebbene sovietici e inglesi avessero formalmente concordato di agire in stretta e amichevole collaborazione per i successivi 20 anni dopo la guerra», Mosca avrebbe potuto denunciare quell’accordo «entro 6 mesi o 6 giorni se fosse stato nel suo interesse farlo» poiché la strategia internazionale russa era «completely Machiavellian» e il sistema politico sovietico rendeva impossibile una sincera e durevole intesa con le altre Nazioni. Anche il delegato iraniano, Mohammad Saed, concordava su questo punto, dichiarando che «all of us must expect continuing difficulties with the Russian enfant gâté after war». Saed riteneva, infatti, che le assicurazioni di Stalin di non nutrire nessuna aspirazione territoriale sul regno di Mohammad Reza Pahlavi e la sua promessa di evacuare le truppe sovietiche dal territorio iraniano subito dopo la cessazione delle ostilità erano destituite di fondamento (va ricordato che nell’agosto del 1941, Churchill e Stalin avevano violato la neutralità dell’Iran, allora legato da amichevoli rapporti con il Reich, invadendone il territorio per consentire il trasferimento di materiale bellico all’Unione Sovietica lungo il cosiddetto «corridoio persiano» e per impadronirsi delle sue risorse petrolifere). Identico, poi, era il parere dei rappresentanti di Ankara, del governo polacco in esilio e di quello di Chiang Kai-Shek, egualmente scettici sulla possibilità di una «Soviet post-war collaboration» e sulle intenzioni russe di entrare a far parte di «a world union of Nations». Ancora meno rassicurante, infine, era il dispaccio del 5 marzo, con il quale McClintock comunicava a Washington che Ribbentrop aveva minacciato l’ambasciatore finnico a Berlino, Toivo Mikael Kivimäki, «della possibilità di una pace separata tra Russia e Germania con tutte le conseguenze del caso per la Finlandia», se il governo di Helsinki avesse cercato di sganciarsi dal patto di collaborazione militare con il Reich sottoscritto alla vigilia dell’operazione Barbarossa, contando sul sostegno diplomatico degli Stati Uniti. (…)
Dal 18 aprile 1943, in un piccolo borgo nei pressi di Stoccolma, aveva comunque avuto inizio una nuova serie d’incontri tra la delegazione russa e tedesca, destinati a prolungarsi nelle settimane seguenti. La notizia dei colloqui era indirettamente confermata, il 29, da un dispaccio dell’ambasciatore portoghese ad Ankara il quale comunicava a Lisbona che i diplomatici dell’Asse presenti nella capitale turca apparivano ormai convinti che «la Germania, da un punto di vista militare, aveva perso la guerra e che si sforzava di prolungarla solo per ottenere una pace di compromesso nella speranza di poter raggiungere questo obiettivo grazie a un negoziato con Mosca la cui conclusione poteva essere favorita da un di guerra contro di essa. (…) I pourparlers si erano conclusi, però, in nulla di fatto a causa dell’ostinazione dei rappresentanti nazisti che avevano ribadito la pretesa di mantenere il controllo dell’Ucraina in cambio della concessione di riconoscere la piena sovranità sovietica su tutti i territori conquistati tra 1939 e 1941. Arenatesi su questo punto, le trattative continuavano senza alcun frutto, fino al 1° maggio, quando Stalin ne decretava la temporanea sospensione, emanando un ordine del giorno indirizzato all’Armata Rossa, che, immediatamente tradotto in inglese, era accolto con grande soddisfazione dal War Cabinet nella giornata del 3. (…) In quella comunicazione il premier sovietico, dopo aver ricordato le dure sconfitte subite dall’Asse in Russia e nell’Africa settentrionale, appariva disposto a sposare, ormai senza nessuna riserva mentale, la tesi della «resa incondizionata», rinnovava l’appello a «continuare la lotta a oltranza contro la congrega dei criminali imperialisti che avevano osato aggredire la madre Russia» e attribuiva il desiderio di arrivare a una pace separata tra Unione Sovietica e Asse all’iniziativa unilaterale dei regimi fascisti ormai consapevoli della loro inarrestabile crisi militare». (…)
Neppure questa incoraggiante dichiarazione metteva fine, tuttavia, ai problemi tra URSS e Potenze occidentali come avrebbe poi ricordato l’allora corrispondente moscovita del «Sunday Times». Alexander Werth sosteneva, infatti, che se, da una parte, il ritardo dei preparativi dell’offensiva estiva nazista «poteva significare che dopotutto Berlino stesse contemplando ancora la possibilità di aprire negoziati con Mosca», dall’altra, Stalin, non potendo escludere un nuovo poderoso colpo di maglio alla fortezza Russia, era intenzionato a fare la voce grossa per ottenere tutto l’aiuto possibile dalle potenze atlantiche. Dimostrava l’ambivalenza della politica sovietica, in questo momento, il perentorio messaggio inviato a Roosevelt, il 5 maggio, con il quale il Segretario generale del PCUS chiedeva l’urgente convocazione di una Conferenza tripartita per equilibrare il peso del rispettivo sforzo bellico dei membri della Grande Alleanza e definire gli obiettivi forali del conflitto, in assenza della quale sarebbe stato difficile mantenere in vita l’intesa politico-militare del 1942. (…) In realtà, anche la tendenziosa e reticente storiografia russa, che ha potuto però utilizzare parte della documentazione dissepolta negli archivi sovietici dopo il 1991, non è riuscita a negare come lo stop impartito da Stalin, il i°maggio 1943, alle trattative con Berlino fosse una mossa tattica di carattere meramente provvisorio. Da questo momento in poi i colloqui per arrivare a una pace di compromesso non s’interruppero ma, al contrario, proseguirono, a Berna, Ankara, Madrid, Lisbona e soprattutto a Stoccolma, articolandosi, da parte sovietica, in un programma flessibile che si sarebbe precisato secondo lo svolgersi degli eventi. Da un lato, il Cremlino si sforzava di arrivare a un’effettiva neutralizzazione del fronte orientale, sviluppando contemporaneamente un’offensiva diplomatica rivolta verso i vertici nazisti e una campagna propagandistica che aveva come destinatari i movimenti di opposizione al regime hitleriano. Qualora questo tentativo si fosse rilevato impraticabile, Stalin si riservava, pero, di agitare di fronte agli anglo-americani lo spettro di uno sganciamento dell’URSS dall’alleanza per costringerli a concederle più ampi vantaggi territoriali, politici, strategici, alla fine del conflitto, e, nell’immediato, a non procrastinare più oltre lo sbarco alleato in Francia.
Il 4 giugno 1943, il messaggio di Roosevelt e Churchill con il quale si informava Stalin che la futura operazione Overlord doveva essere rimandata almeno al maggio 1944, provocava una furiosa reazione del premier sovietico. Questi, l’11 luglio, dichiarava di dover necessariamente considerare quel ritardo una mossa strumentale, che rientrava nel programma escogitato dai gabinetti di Londra e Washington per logorare il potenziale militare, economico, demografico sovietico, in modo di ridurre la Russia a una potenza di secondo rango alla fine delle ostilità. Si trattava di sospetti ampiamente giustificati, i quali pure non coglievano le vere intenzioni degli Alleati occidentali che erano trapelate invece, fin dal 1° febbraio 1942, nel dispaccio dell’ambasciatore italiano ad Ankara, Ottavio De Peppo. Questi aveva comunicato a Roma che, secondo alcune indiscrezioni raccolte nella capitale turca, «il progetto di Roosevelt di inviare un’imponente armata in Inghilterra terrebbe conto anche dell’eventualità di dover ristabilire l’ordine in Europa in seguito ad un’ipotetica vittoria sovietica».
Fino a tutta restate del 1943, i circoli politici, diplomatici e militari statunitensi avrebbero considerato, infatti, la rapida apertura di un secondo fronte come un’urgente necessità per bloccare le mire espansionistiche del Cremlino, che, una volta debellata la minaccia hitleriana, sarebbe stato libero di rivolgere le sue brame di conquista non solo verso l’area danubiana e i Balcani ma anche sulla Germania e oltre la frontiera del Reno. Un rapporto dell’Army Air Corps Intelligence del 4 agosto, insisteva su questo punto con la massima decisione, sostenendo che, dopo il collasso totale del Terzo Reich, «nel blocco delle Nazioni Unite soltanto l’Unione Sovietica sarebbe stata in grado di muoversi con forza per sedare l’anarchia che certamente sarebbe esplosa in Europa e per dettare il futuro assetto politico e territoriale continentale». Al fine di scongiurare questa eventualità, l’esercito statunitense doveva sbarcare al più presto sulle coste francesi «per cercare di battere le forze russe sul tempo, occupando molto più di qualche fazzoletto di terra in Francia, Belgio e Olanda». In caso contrario, al termine del confitto, il governo di Washington si sarebbe dovuto rassegnare «a farsi da parte, lasciando alla Russia la prerogativa di decidere il destino dell’Europa». La contrapposizione tra le potenze della Grande Alleanza antinazista favoriva cosi, ancora una volta, la riapertura del tavolo delle trattative nella capitale svedese. Il 16 giugno, da un editoriale del quotidiano di Stoccolma, «Nya DagligtAllehanda» (poi ripreso dal «New York Times» e dalla gazzetta ginevrina «La Suisse») forniva un resoconto dell’abboccamento tra alcuni alti ufficiali sovietici e tedeschi avvenuto, ancora una volta, alla periferia della capitale scandinava. La veridicità del ragguaglio, sconfessata da un comunicato ufficiale della TASS, veniva avvalorata, invece, nelle settimane seguenti, da un report dell’OSS e da un’informativa del Foreign Office dove si aggiungeva che tra i partecipanti al colloquio dovevano essere annoverati anche il consigliere d’ambasciata, Mikhail Nikitin e un alto dirigente dell’Auswärtiges Amt [ministero degli Esteri NdR] come Paul Otto Gustav Schmidt. (…) I diplomatici russi avevano dichiarato che Stalin non era più disposto a battersi a fianco delle Nazioni Unite «né per un solo giorno né per un solo minuto (ni odnu minutu)», se l’immenso tributo di sangue pagato dal suo popolo doveva essere dilapidato unicamente per il tornaconto degli Alleati. L’ottuso rigore ideologico di Hitler lo aveva spinto, infatti, a impegnarsi in una avventura bellica funzionale ai soli interessi delle democrazie capitaliste, dal quale la Germania sarebbe uscita sconfitta ma, alla cui conclusione, l’URSS, sfiancata dalla lotta, non avrebbe potuto contrastare il programma di Londra e Washington di ricostituire lo status quo ante precedente il 1939 a loro esclusivo vantaggio. Il rifiuto di definire con sufficiente chiarezza gli obiettivi strategici della guerra e la sistemazione territoriale, che avrebbe dovuto seguire alla fine delle ostilità, le poco credibili smentite di Churchill e Roosevelt riguardo ai tentativi dì firmare un armistizio unilaterale con il Reich, la mancanza di un accordo soddisfacente sul futuro dell’Iran, la volontà di annientare l’economia tedesca per impedire che Berlino potesse corrispondere a Mosca le indennità belliche, erano valutati dal Cremlino come provocazioni inaccettabili. Inoltre, i colposi ritardi per la creazione del secondo fronte e il progetto di bloccare, con rinvio di un corpo di spedizione anglo-americano nei Balcani, l’avanzata sovietica verso gli Stretti turchi e l’Europa orientale manifestavano con estrema chiarezza un disegno ostile. Contro questa minaccia Mosca si preparava a reagire spostando l’asse del suo sforzo bellico verso il Giappone per minacciare gli interessi degli USA e del Regno Unito in Estremo Oriente. (… )
Che le previsioni di Klaus non fossero destituite di fondamento lo aveva già comprovato, il 15 maggio, la decisione presa dall’Esecutivo dell’Internazionale comunista di sciogliere il Comintern e di restituire, come comunicava Standley a Cordell Hull, la piena iniziativa all’«avanguardia dei lavoratori in ogni Nazione», che, da quel momento, doveva impegnarsi autonomamente, in tutti i territori caduti sotto il gioco nazista, per provocare «la disfatta di Hitler» e per preparare «la futura fratellanza internazionale basata sui principi dell’eguaglianza sociale». Questa risoluzione assumeva un particolare significato per quello che riguardava l’obiettivo sovietico di favorire, nel territorio tedesco, la nascita di un movimento di opposizione in grado di abbattere il sistema nazionalsocialista e poi di facilitare un processo di pace fondato su condizioni egualmente vantaggiose e onorevoli per Germania e Russia. Se, il 22 giugno, la «Pravda» si limitava, infatti, a ripetere che «senza la creazione di un secondo fronte la vittoria contro il Terzo Reich era impossibile», il 1° luglio, una nota dell’autorevolissima rivista «Voina i ravochii klass» criticava vigorosamente il programma di Londra e di Washington di «infliggere alla Germania una pace punitiva». L’autore dell’articolo, Nikolai Malinin confutava «la tesi anglo-sassone della responsabilità collettiva del popolo tedesco nello scatenamento del conflitto» e sosteneva che l’URSS non intendeva ripetere l’errore compiuto nel 1919, a Versailles. (…) Consapevole che quelle draconiane condizioni di pace si erano dimostrate «equivalenti a un mero armistizio provvisorio che aveva creato le premesse della Seconda guerra mondiale», Malinin affermava che Mosca era disposta, invece, a dimostrare tutta la sua generosità verso la Germania e a riconoscerle, una volta che questa avesse deposto le armi, il mantenimento della sua integrità territoriale, secondo le linee di confine del 1914, e il possesso di tutta la Polonia occidentale e dei Sudeti. (…)
ll 21 giugno 1943, intanto, anche l’ambasciatore germanico a Stoccolma, Hans Thomsen, aveva comunicato la notizia di un convegno tra Klaus, Alexandrov e l’ambasciatrice sovietica, da poco reduce da un incontro con Molotov a Mosca. Notizia che, rii luglio, sarebbe stata formalmente smentita, da Ribbentrop in un cablogramma inviato al ministro degli Esteri nipponico. I colloqui tra Klaus e Alexandrov si erano, infatti, interrotti per ordine di Hitler che, insospettito dalla presunta origine ebraica dei due negoziatori, aveva definito quella trattativa «un’impudente provocazione giudaica» e aveva ordinato alla GeStaPo di sottoporre lo stesso Kleist a uno stringente interrogatorio, al suo ritorno a Berlino. La ripresa di attività della delegazione sovietica era stata comunque segnalata, il zo giugno, da McClintock che riferiva di esser stato aggiornato dall’ex ministro degli Esteri finlandese, Eljas Erkko, sui nuovi, prolungati colloqui intercorsi tra la Kollontai, Nikitin e Thomsen, accompagnato, in quell’occasione, da «due funzionari tedeschi di alto livello che però Erkko non era riuscito a identificare». Colloqui che avevano avuto come oggetto: «la creazione di un’Ucraina indipendente, con funzione di Stato cuscinetto tra Germania e Russia, il raggiungimento di una pace separata tra i due Paesi e la cessione degli Stati baltici a Mosca».
(Pubblicato in – © «Storia in Rete» – Agosto 2020 – Speciale nazismo)