di Luciano Monzali
Dopo tante iniziative scientifiche e non dedicate alla Grande Guerra, il centenario della Conferenza della Pace di Parigi del 1919 è passato nell’indifferenza dell’opinione pubblica italiana, nonostante l’importanza di quell’evento nelle vicende politiche del nostro Stato unitario. Furono infatti le difficoltà della classe dirigente liberale nel tradurre la vittoria militare ottenuta nel conflitto in successo politico-territoriale alla Conferenza di Parigi una delle ragioni della crisi del liberalismo italiano nel primo dopoguerra, e del conseguente emergere di un nuovo movimento politico alla sua destra, il fascismo, che avrebbe sconvolto gli assetti interni italiani e dominato il nostro Paese fra le due guerre mondiali.
In questo panorama di disinteresse della cultura e della storiografia italiane verso questo anniversario spicca come importante e positiva eccezione il nuovo libro di Paolo Soave, Una vittoria mutilata? L’Italia e la Conferenza di Pace di Parigi (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2020), dedicato proprio ad un’analisi e ad una ricostruzione complessiva dell’azione diplomatica italiana alla Conferenza della Pace del 1919.
Innanzitutto l’opera di Soave colma un’importante lacuna nella storiografia italiana. Non mancano interessanti e documentate ricerche su singoli aspetti della politica estera italiana alla Conferenza della Pace, prodotte in gran parte da esponenti della scuola di Mario Toscano, autore dell’importante saggio Il problema coloniale italiano alla conferenza della pace (in “Rivista di Studi Politici Internazionali”, n. 3-4, 1937). Fra questi storici ricordiamo solamente Pietro Pastorelli, L’Albania nella politica estera italiana: 1914-1920, Jovene, Napoli 1970; Maria Grazia Melchionni, La vittoria mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della grande guerra (ottobre 1918-gennaio 1919), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1981; Luca Riccardi, Francesco Salata tra storia, politica e diplomazia, Del Bianco, Udine 2001; Francesco Caccamo L’Italia e la “Nuova Europa”. Il confronto sull’Europa orientale alla Conferenza di pace di Parigi (1919-1920), Luni, Milano 2000; Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, Le Lettere, Firenze 2007; Luciano Monzali, Il colonialismo nella politica estera italiana 1878-1949. Momenti e protagonisti, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2017. Indubbiamente mancava uno studio documentato e aggiornato alla luce delle interpretazioni storiografiche sull’azione complessiva della delegazione italiana a Parigi. L’unica eccezione era l’opera di René Albrecht-Carrié, Italy at the Paris Peace Conference (Columbia University Press, Columbia, 1938), all’epoca ricerca pionieristica, ma oggi molto datata, anche perché lo storico statunitense non aveva potuto consultare la documentazione diplomatica italiana.
Paolo Soave ha un background di studi che lo rende particolarmente adatto ad affrontare il tema della politica estera italiana nel primo dopoguerra. Erede della tradizione di studi di storia diplomatica di Santi Nava e Giovanni Buccianti, il docente dell’Università di Bologna si è dedicato con solerzia e costanza allo studio dell’imperialismo coloniale europeo (ricordiamo per esempio il suo volume sul Fezzan nella politica imperialistica europea: Paolo Soave, Fezzan: il deserto conteso (1842-1921), Giuffrè, Milano 2001 e alla storia della politica estera degli Stati Uniti, alla quale ha dedicato due bei libri, La rivoluzione americana nel Mediterraneo. Prove di politica di potenza e declino delle reggenze barbaresche (1795-1816), Giuffrè editore, Milano 2004 e Fra Reagan e Gheddafi. La politica estera italiana e l’escalation libico-americana degli anni ’80, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
La sua conoscenza approfondita dell’imperialismo europeo e della storia diplomatica americana danno a Soave la possibilità di analizzare al meglio i vari scenari sui quali si gioca la politica estera dell’Italia liberale dopo la prima guerra mondiale: Africa, Europa, Medio Oriente, il sistema politico mondiale globale. Dopo il 1918 grande novità per la politica estera italiana è l’emergere della potenza globale degli Stati Uniti, ed è proprio la stimolante e intelligente ricostruzione delle relazioni italo-statunitensi nel 1918-1919 uno degli elementi di maggiore interesse del volume di Soave sulla Conferenza della Pace. Lo storico dell’ateneo bolognese spiega bene la genesi e lo svolgimento dello scontro fra i leader italiani, Orlando e Sonnino, e il presidente americano Wilson. Esso derivò in fondo più che da un’inconciliabilità di interessi di potenza da un’incomprensione ideologica fra liberali italiani come Sonnino, che avevano forgiato il loro pensiero di politica estera nell’epoca degli imperialismi coloniali europei e dell’egemonia incontrastata dell’Europa nel mondo, e un democratico americano come Wilson, privo di una forte esperienza internazionale, che conosceva poco l’Europa al di fuori della Gran Bretagna, e che aveva una visione della politica mondiale tutta incentrata sul ruolo predominante delle Potenze anglo-americane, all’interno della quale l’Italia giocava un ruolo marginale e secondario.
Soave offre al lettore anche una ricostruzione precisa, documentata ed equilibrata delle trattative adriatiche e coloniali alla Conferenza della Pace, raccontando con chiarezza la genesi del programma territoriale italiano e le difficoltà nella sua realizzazione. Di fatto, come lo storico nativo di Siena ci mostra, le difficoltà dell’Italia alla Conferenza della Pace derivarono dall’incapacità del governo di Roma di costruire solide collaborazioni diplomatiche e politiche con gli alleati. L’Italia risultò così schiacciata dal crescente antagonismo con la Francia in Europa centrale e balcanica e dall’ostilità anglo-americana verso l’ambizione del nostro Paese di giocare un ruolo da protagonista in Africa e in Medio Oriente.
Oltre alle difficoltà e agli insuccessi, Soave segnala però il contributo costruttivo e positivo che l’Italia portò all’edificazione di un nuovo ordine europeo e internazionale alla Conferenza della Pace, ad esempio impegnandosi a difendere l’Austria e l’Ungheria da eccessive amputazioni territoriali e a frenare i progetti francesi e polacchi di dissoluzione totale dello Stato russo, proponendo più volte soluzioni territoriali equilibrate (nei Balcani, in Europa orientale) che cercavano di conciliare il rispetto del principio di nazionalità con le esigenze strategiche e militari dei vari Paesi.
Nonostante le difficoltà di espansione in Africa e Medio Oriente, possiamo ritenere la politica estera dell’Italia liberale alla Conferenza della Pace, con gli importanti guadagni territoriali ottenuti (l’Alto Adige, Trieste e Gorizia, l’Istria e Zara) come un grave insuccesso politico, così come proclamò la propaganda nazionalista e fascista nel primo dopoguerra? Nel capitolo finale del libro, nel quale l’autore compie una riflessione interpretativa e svolge un bilancio sul significato della Conferenza di Parigi e sul ruolo dell’Italia, Soave sembra in fondo condividere il giudizio espresso da Harold Nicolson (Peacemaking 1919, Constable, London 1945, p. 178) sulla politica estera italiana del primo dopoguerra, secondo il quale l’Italia was determined to become a Great Power without the internal force to justify such an ambition. Era questa la valutazione che fece pure il diplomatico italiano Pietro Quaroni (La politica estera italiana dal 1914 al 1945, a cura di Luciano Monzali, Minima Storiografica, Piccola Biblioteca della Nuova Rivista Storica, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2018, p. 65) affermando che l’Italia liberale dopo la prima guerra mondiale si lanciò in un programma di espansione eccessivamente ambizioso, per il quale non aveva le risorse economiche, il sostegno interno e la determinazione politica. Insomma, la vittoria non fu poi così mutilata, ma venne percepita come tale a causa dell’irrealistica aspettativa di una cooptazione dell’Italia fra le maggiori potenze del tempo.
Nel complesso, a pesare sul Paese furono soprattutto le conseguenze complessive del conflitto, il suo gravoso peso sociale e la forte accelerazione impressa ai cambiamenti politici. A tale riguardo di grande interesse sono le considerazioni che nel capitolo finale del suo volume Soave fa sul significato del mito della “vittoria mutilata” nella storia italiana, quando pur segnalando che non si può certo attribuire alle vicende della Conferenza di Parigi la genesi del movimento fascista, sottolinea piuttosto l’impatto del “mito” della vittoria mutilata (pp. 110-111):
La “vittoria mutilata” non esaurì la complessità sociale, economica, politica e morale della guerra, che ebbe ben più potente impatto su un Paese che al termine della grande prova sperimentò l’amarezza di sentirsi più sconfitto che vittorioso e che soprattutto si rivelò profondamente diverso, alle prese con tensioni nazionali che vennero incanalate verso uno sbocco rivoluzionario che non fu quello previsto, di ispirazione bolscevica. La “vittoria mutilata” fu l’elaborazione nazionalistica di vicende politico-diplomatiche che si articolò in due fasi, quella dannunziana culminata nel fiumanesimo, e la successiva, prettamente politica, mussoliniana e strumentale. L’avvento del fascismo, imponendo il monopolio interpretativo del conflitto e della Nazione, investi anche il senso della “vittoria mutilata”. Come ha rilevato Emilio Gentile, fu il regime a spostare il mito fondativo dell’Italia dal Risorgimento alla Grande Guerra. Celebrata come vittoria degli italiani, essa fu per Giovanni Gentile l’evento che introdusse l’Italia nella grande storia. Giuseppe Bottai scrisse che ai fascisti non interessavano le firme apposte ai trattati, quanto le piazze, e Mussolini ammise di avere a cuore più la rivoluzione che i problemi della pace. Derubricata da tema nazionale a politico, la “vittoria mutilata” servì la causa del fascismo nella misura in cui consenti la delegittimazione della screditata classe politica liberale.
Il libro di Paolo Soave costituisce un contributo importante a meglio conoscere un passaggio fondamentale della storia italiana ed internazionale quale quello della politica estera del primo dopoguerra. La lettura della sua opera ci conferma una volta di più nella convinzione che una storiografia rigorosa e documentata ha ancora un ruolo importante da svolgere nel dibattito politico e culturale italiano e nel processo di definizione di quella che è la nostra identità di nazione.
(Pubblicato in © «Rivista di Studi Politici Internazionali», gennaio-marzo 2021)