di Sergio Luzzatto
Da decenni emigrato in Israele, Ariel Toaff è probabilmente il massimo conoscitore della storia degli ebrei italiani nell’età medievale e moderna. Nel 2007, la pubblicazione di un suo libro controverso, Pasque di sangue, fece di lui il bersaglio di una velenosa polemica da parte delle gerarchie rabbiniche e dell’intellighenzia diasporica. Ma Toaff non ha smesso, da allora, né di studiare né di scrivere. La scomunica lanciata, se non contro di lui, contro la libertà intellettuale della sua ricerca, non lo ha ridotto al silenzio. Un nuovo libro di Toaff viene pubblicato ora dal Mulino, cioè dallo stesso editore di Pasque di sangue. Con trasparente omaggio a Niccolò Machiavelli, si intitola Storie fiorentine. E racconta (è il sottotitolo) L’alba e il tramonto dell’ebreo del ghetto. Dove Toaff torna a far prova della vena narrativa che fa di lui uno degli storici italiani – non molti – capaci di farsi leggere con gusto dai loro lettori. E dove Toaff torna a dimostrare un’implacata volontà di fare storia senza paraocchi. Qui, investendo una «moda» politicamente corretta che «prospera rigogliosa» nell’Italia ebraica d’oggidì: la moda di «mitizzare la presunta epopea del ghetto».
A Firenze come in quasi tutte le città italiane dove si fosse raccolta una comunità israelitica più o meno nutrita, quartieri riservati valsero per secoli mantenere gli ebrei separati dai cristiani. Nel caso fiorentino l’istituzione del ghetto fu ordinata da Cosimo de’ Medici, nel 1571, entro il fitto intreccio di case che si trovavano a ridosso del Mercato Vecchio. Per due secoli e mezzo abbondanti, fino all’apertura legale del ghetto nel 1835, là visse una comunità che non superava le cinquecento anime ed era composta di ebrei dalle origini più disparate: romane o pesaresi, senesi o maremmane, levantine o tedesche. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, l’antico ghetto dovrà poi cedere al diktat urbanistico del «risanamento».
Un pittore locale, il macchiaiolo Telemaco Signorini, avrà appena il tempo di coglierlo in un’ultima istantanea prima che i fatiscenti edifici intorno alle piazze della Fonte e dell’Olio, a via dell’Oche, al vicolo della Luna, fossero colpiti e affondati dal piccone sventratore della nuova piazza Vittorio Emanuele II, oggi piazza della Repubblica. Nell’impossibilità di sottoporre a recupero l’annientato ghetto di Firenze, i ghetti di altre città italiane conoscono adesso quello che Ariel Toaff qualifica come un «ridondante e artificiale revival mitologico». Le loro misere abitazioni vengono restaurate e risistemate «per i nostalgici e i turisti abbienti che sono disposti a pagarle un occhio della testa». I cibi tipici della cucina ebraica vengono riproposti ed esaltati come leccornie. I costumi del ghetto vengono «riverniciati» e venduti in «salsa globalizzante» quali «espressioni del più originale giudaismo autoctono». Insomma l’identità ebraica reale e concreta, «perché saldamente ancorata alla storia italiana», viene contraffatta a beneficio di un’identità ebraica beatificata e virtuale.
Le storie fiorentine di Toaff raccontano un altro ghetto, altrimenti genuino e appassionante. Abitavano il ghetto di Firenze ebrei molto più ignoranti che colti (ignorante era pure la maggioranza dei rabbini), che campavano barattando cenci, giocando d’azzardo, rimestando pozioni magiche, distillando oro potabile. E lo abitavano spregiudicati cabbalisti, allevatori casalinghi di oche da contrabbando, matronali cuoche di pranzi sabbatici… Ma il ghetto era anche – scrive Toaff – «un campo di battaglia, dove si affrontavano senza esclusione di colpi inquisitori e frati da una parte ed ebrei dall’altra, intenzionati a difendersi e a sopravvivere». Sul capo degli ebrei italiani continuavano a pendere antiche minacce, dai battesimi forzati ai processi inquisitoriali per eresia o stregoneria. Tuttavia, a partire dal Seicento e soprattutto nel Settecento, gli ebrei del ghetto dovettero difendersi meno dalle persecuzioni che dalle beffe. Allo sguardo dei cristiani, i «giudei» apparivano ormai più patetici che perfidi. Più che consumati maestri dell’usura, sistematici corruttori della morale, subdoli rapitori di bambini, apparivano ridicole vittime di prescrizioni strampalate, cerimonie bislacche, tradizioni grottesche.
Del resto, gli ebrei del ghetto non erano forse, sotto sotto, invidiosi dei cristiani là fuori? La loro conclamata diversità non si riduceva forse, da ultimo, a un «vorrei ma non posso»? Intonata per la prima volta a Firenze nel 1753 e destinata a fortuna secolare, la canzone satirica Sopra lo sposalizio della Gnora Luna e del Gnor Baracubà ambidue del Ghetto di Firenze offre una testimonianza parlante di questa evoluzione dell’antisemitismo italiano in età moderna, dal tempo della minaccia al tempo dello sberleffo. La canzone irrideva un immaginario matrimonio ebraico, appunto quello fra una signora Luna e un signor Baracubà, che avrebbe ben voluto riuscire altrettanto sfarzoso di un matrimonio cristiano, ma dove già in partenza tutto risultava ridicolo, le acconciature, i vestiti, il contratto, la dote, e dove tutto finiva con l’andare storto: incidenti di ballo, malore della sposa, fuggi fuggi degli invitati, razzia finale di candele e stoviglie. Pubblicato a stampa, orecchiato da viandanti e soldati, rilanciato da saltimbanchi e cantastorie, il carme della Gnora Luna divenne l’occasione, nel 1754, per piazzate o chiassate antiebraiche nel ghetto di Mantova come in quelli di Ferrara e di Alessandria. Eppure – di contro a una storiografia che ha voluto farne il testo antisemita più virulento della letteratura popolare italiana, «la giudiata più infame» – Toaff ha buon gioco nell’argomentare come la canzone della Gnora Luna partecipasse di un registro irridente più che insolente, e burlesco più che manesco.
Con lo zelo dei neofiti, gli ebrei convertiti al cattolicesimo campeggiavano spesso in prima fila nel coro dello sberleffo. Ma capitava anche a ebrei tutt’altro che convertiti di lamentare i risvolti striminziti e meschini della vita di ghetto. Così un impaziente rabbino veneziano, il grande Leon da Modena, al cui soggiorno fiorentino, dal 1609 al 1610, Ariel Toaff dedica pagine magistrali. Approdato sull’Arno dalla laguna per rimpinguare le casse di famiglia con prediche in sinagoga e lezioni private, Leon da Modena si trovò circondato da null’altro (a sentir lui) che rabbini mediocri, maggiorenti impauriti, ebrei insipidi. «Io, per guadagnarmi la paga, sono costretto a sopportare. Ma questa vita non è vita». Nel ghetto di Firenze, infatti, Leon da Modena non resse più d’un anno. Fra quanto poteva rivelarsi soffocante nella vita di ghetto erano le misure anguste della sfera affettiva e sessuale. D’altronde, diffuso restava – ancora nella Firenze del Settecento – lo stereotipo medievale dell’ebreo che la circoncisione del «dito senz’unghia» e gli afrodisiaci poteri del cibo casher rendevano altrettanto virile che rapace. In ogni caso, di là dagli stereotipi c’era la vita vera. E capitavano storie come quella di Daniele Levi, giovanissimo figlio di un agiato merciaio del ghetto, che nel 1710 si innamorò perdutamente di Maria Francesca Antinori, figlia adolescente dell’illustre senatore che aveva palazzo in via de’ Tornabuoni. Come sia andata avanti questa storia (torrida storia, diremmo se si trattasse di un romanzetto), non riveleremo qui: lasceremo al lettore delle Storie fiorentine il gusto dolceamaro di scoprirlo.
(Pubblicato il 26 maggio 2013 – © «Il Sole 24 Ore»)