di Marco Valle
26 dicembre 1805. Dopo la strepitosa vittoria di Austerlitz Napoleone chiuse il trattato di Presburgo. L’apogeo del grande sogno del piccolo corso. Un pace provvisoria (molto provvisoria…) con le potenze europee che fissò, tra le altre cose, il quasi totale inglobamento dell’Italia nel sistema imperiale bonapartista. L’Austria dovette rinunciare al Veneto che venne incorporato nell’ex repubblica Cisalpina, dal marzo 1805 regno Italico; come già nel 1802 per il Piemonte, anche Istria, Dalmazia, Liguria, Toscana, Lazio e Umbria furono via via annesse all’impero; Piombino, Lucca, Massa Carrara divennero, gentile cadeau, un ducato per Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone. Il 15 febbraio 1806 l’altro fratello Giuseppe entrava a Napoli mentre Ferdinando e Maria Carolina riparavano, sotto la protezione inglese, nuovamente in Sicilia. In Sardegna gli affranti Savoia si rinchiusero in una precaria neutralità.
Al nuovo assetto statuale corrispose, sempre nell’ambito degli stretti legami con Parigi, una nuova fase politica finalizzata ad un vasto piano di valorizzazione della Penisola. Un tentativo importante ma dai risultati incerti. Problemi che Napoleone mai si pose, convinto d’aver impiantato nell’animo degli italiani “dei principi che non verranno più sradicati: fermenteranno per sempre”. Aveva ragione. Al netto degli spogli di tesori e beni, dei prelievi forzati e dei contributi obbligatori, il suo dispotismo innovatore aveva sconvolto in profondità gli antichi assetti sociali e frantumato irrimediabilmente i compartimenti stagni in cui gli staterelli italiani vivacchiavano da secoli. Nulla sarebbe stato come prima. Nelle sue memorie d’esilio, il titano decaduto non smise di immaginare scenari riguardanti l’Italia, “una sola nazione” che per esistere doveva diventare “una potenza marittima”. Il potere della geografia come destino:
“L’Italia ha in complesso 1200 leghe di costa, la Francia 130 sul Mediterraneo e 470 sull’Oceano. In tutto 600. La Spagna, comprese le isole, 500 sul Mediterraneo e 300 sull’Oceano. L’Italia ha tutte le risorse di legno e canapa ed in generale ciò che occorre per le costruzioni navali. La Spezia è il più bel porto dell’universo, la sua rada è superiore a quella di Tolone, la sua difesa da terra e per mare è facile. Taranto è meravigliosamente situata per dominare la Grecia, il Levante e le coste dell’Egitto e la Siria, con i progetti preparati per le sue fortificazioni di terra e i suoi stabilimenti marittimi, le più grandi flotte lì sono al riparo da tutti i venti e da ogni attacco. Infine a Venezia esiste già tutto quello che è necessario”.
Una visione lungimirante a cui, però, corrisposero strategie contraddittorie, programmazioni confuse e interventi intermittenti, alla fine tutti fallimentari. Inizialmente Napoleone non pensò ad una autonoma marina italiana ma ad una rete di basi per la marina imperiale sinché gli eventi lo obbligarono a ripensare i suoi piani.
Con la riconquista di Venezia, l’acquisizione di Trieste, della costa dalmata e Ragusa – inglobate come Province illiriche nella Francia metropolitana – e la satellizzazione del regno di Napoli, prima con il fratello Giuseppe e poi con il cognato Murat, l’Adriatico era diventato un lago imperiale, un confine liquido esteso sino al litorale ottomano. Un successo solo apparente. In realtà, le acque del “golfo di Venezia” erano controllate da navi russe (sino alla pace di Tilsitt del 1807) e dalla temibile Royal navy. Dalle loro basi nelle Ionie, a Lissa e, quando serviva, da Lussino e San Pietro de’ Nembi, i britannici organizzarono una micidiale guerra di corsa e un’efficace rete di contrabbando – a cui parteciparono con entusiasmo le comunità rivierasche – alternando incursioni su Ancona e la costa veneta. Una minaccia intollerabile che convinse l’imperatore — invero senza troppe illusioni — a costituire, con i colori del nuovo regno, una squadra navale franco-italiana basata su Venezia e su ciò che rimaneva della sua flotta. Il 26 luglio 1806 venne istituita formalmente la Reale marina italiana. Con la solita meticolosità Napoleone fissò personalmente gli obiettivi: 8 vascelli, 8 fregate e 8 corvette da costruire in quadriennio.
Il 29 novembre 1807 “l’uomo del destino” fece ritorno sul luogo del delitto più grande: Venezia. Fu, come racconta Alvise Zorzi, uno spettacolo grandioso. Prostrata al suo conquistatore, umiliata e impoverita la vecchia capitale marciana si rassegnò, con qualche tiepida speranza, al camaleontismo e all’adulazione. Fintamente immemori dei saccheggi del 1797, nobili, preti, borghesi e popolani accolsero con uno sfarzosissimo corteo nautico colui che aveva assassinato la Serenissima:
“Attorno all’imbarcadero di Fusina, sull’orlo della laguna, e lungo i lati delle due vie d’acqua si affollavano imbarcazioni lussuose come non si vedevano dal giorno dell’Ascensione 1796 […] galleggiavano numerose peote pitturate d’argento e lussuosamente addobbate con veli, stoffe e piume. Otto erano state fatte costruire dal Consiglio municipale del Savi, e una di esse ospitava una banda musicale di ventiquattro elementi. Altre nove erano state allestite dalle autorità politiche e giudiziarie e da monsignor patriarca […] poi, le grandi imbarcazioni da parta, le bissone. Erano ventidue, cinque della Municipalità. La più bella di tutte aveva a poppa una grande aquila dorata posata su un fascio di fulmini sotto una quercia, fra le bandiere dell’Impero francese e del Regno italico con le insegne di Venezia in mezzo a due sfingi dorate dal capo adorno di piume bianche; il tutto confluiva in una corona di ferro, riproduzione di quella del Regno”.
Nelle sue dieci giornate veneziane l’imperatore non perse tempo: lunedì 30 novembre visitò l’Arsenale che aveva depredato pochi anni prima; dopo un’accurata ispezione stanziò le somme necessarie per rimetterlo in piena efficienza e ordinò d’assumere — con gran gioia del sestriere di Castello, enclave degli arsenalotti —, 3500 operai; nei giorni seguenti s’interessò di fortificazioni, dighe, fiumi, porto, tasse e urbanistica. L’ala napoleonica delle Procuratie di piazza San Marco e i giardinetti reali sul Canal Grande furono il suo saluto. L’otto dicembre Napoleone lasciava Venezia. Non vi tornò mai più.
A guardia della città restarono i maggiorenti, i burocrati, i soldati e i marinai del Regno italico e, talvolta, il viceré Eugenio di Beauharnais, il figliastro. Come ricorda Virgilio Ilari se l’intesa tra il condottiero e il principe:
“Fu in generale carente, mancò del tutto in campo navale. Gli ordini e le direttive imperiali — spesso impulsivi, velleitari e soggetti a repentini mutamenti — furono accolti dal viceré con un crescente senso di sfiducia in sé stesso e perciò eseguiti in modo esitante e pedissequo, senza controllo dei risultati e senza una vera assunzione di responsabilità”.
La prima “marina nazionale” italica (o italiana) nacque, visse e tramontò nell’incertezza e nell’improvvisazione. Mentre a Milano un euforico Eugenio, durante il carnevale ambrosiano del 1807, sfilava vestito d’ammiraglio su un carro allegorico a forma di nave, i vertici si adagiarono una stregata vacanza dalle responsabilità: inevitabilmente i programmi navali ritardarono sempre più e gli equipaggi — veneti, istriani, dalmatici e ionici— s’impigrirono nei porti. Intanto la modesta forza britannica — un pugno di fregate — continuava ad imperversare da Santa Maria di Leuca sino alle foci del Tagliamento.
Da Parigi, un furente Bonaparte continuò, tramite il telegrafo ottico inventato nel 1793 da Claude Chappe, a tempestare d’ordini il viceré per un’offensiva sull’Adriatico e, finalmente, il 22 ottobre 1810 una divisione navale comandata Bernard Dubourdieu e Niccolò Pasqualigo sferrò un raid contro Lissa catturando tre vascelli, incendiandone altri nove e affondando 33 mercantili. Un successo insperato che Parigi pubblicizzò fortemente. Ma gli inglesi non s’impressionarono e ripresero con ancora maggior vigore le loro scorribande. Nella notte del 21 febbraio 1812, una pattuglia intercettò davanti a Lignano uno dei grandi vascelli da 74 cannoni ordinati da Napoleone, il Rivoli, durante la sua prima uscita in mare, il viaggio inaugurale. Distrutta la scorta, il costosissimo veliero fu catturato e portato a Lissa dove entrò a far parte della flotta inglese. Nel 2001 davanti alla cittadina friulana è stato ritrovato, a 18 metri di profondità, lo scafo del brigantino Mercure affondato quella fatidica notte, ad oggi il più antico relitto di una nave battente il tricolore; il sito è il primo cantiere subacqueo gestito da un ateneo italiano, l’Università di Ca’ Foscari.
La perdita del Rivoli turbò l’imperatore che obbligò Eugenio e i suoi navarchi a reagire con l’occupazione di Lissa. Un azzardo fatale che mezzo secolo più tardi l’ammiraglio Persano replicherà con gli stessi disastrosi esiti. Nel marzo 1812 la squadra franco-italica – quattro fregate, due corvette, un brigantino, due golette, uno sciabecco e un avviso – puntò sull’isola ma la mattina del 13 incrociò improvvisamente la divisione del commodoro William Hoste che, seppure inferiore di numero, diede il segnale “Remember Nelson” e ingaggiò battaglia. Alle 16.30 tutto si concluse. La forza franco-italica era stata annientata e tra i rottami delle navi galleggiavano più di duecento morti, tra cui il coraggioso Dubourdieu.
Un colpo letale da cui la Reale marina non si riprese. Le dure sconfitte sul mare avevano dimostrato tutte le carenze della forza armata: modesto il comando, pochi e superati gli armamenti — rispetto alle moderne navi britanniche i grandi vascelli, costruiti in tempi lunghissimi dall’Arsenale veneziano, erano già obsoleti —, demotivato e impreparato il personale. Riprendendo Ilari:
“Gli equipaggi e le maestranze dell’Adriatico non erano in erano in grado di reggere il confronto con l’esperienza e l’addestramento dei marinai nemici. Lo stesso imperatore ne era perfettamente consapevole, tanto da aver ordinato alla marina italiana di evitare ogni contatto col nemico se non in condizioni di schiacciante superiorità. In attesa di acquisire la superiorità si rinunciò all’obiettivo intermedio di proteggere i collegamenti diretti fra le due sponde dell’Adriatico e dello Ionio e si limitò il compito della marina italiana alla pura difesa della navigazione costiera, che del resto era il criterio generale adottato anche per la marina imperiale”.
Ormai senza vero contrasto, nei due anni successivi la Royal navy poté spadroneggiare in tutto l’Adriatico, impadronirsi delle principali isole della Dalmazia e, nell’ottobre 1813, bloccare il porto di Venezia. Soffocata sul mare e, da novembre, assediata anche da terra dall’armata austriaca, la città resistette faticosamente sino all’annuncio della prima abdicazione di Napoleone, avvenuta a Fontainebleau il 12 aprile 1814. Al momento della resa, i britannici pretesero la consegna dei vascelli e dell’Arsenale ma, su ordine dell’anglofobico viceré Eugenio, il governatore Serras affidò i legni ai rappresentanti asburgici: cinque navi di linea, altre sette in costruzione, due fregate, cinque altre in costruzione, una corvetta e altri legni minori. Un bottino importante per una potenza continentale del tutto priva di una forza navale. Il 28 aprile il vessillo imperiale fu issato sui pennoni e il primo maggio gli equipaggi giurarono fedeltà a Francesco d’Austria. La Reale marina italiana aveva cessato d’esistere.
(Pubblicato il 30 luglio 2023 © «Inside Over» – Guerra)