di Luciano Monzali
Anche se ciò non piace alla maggior parte degli italiani, popolo prevalentemente autoreferenziale, provinciale e chiuso, che vorrebbe avere rapporti con l’estero solo quando si tratta di fare vacanze in luoghi esotici o di ricevere soldi da turisti compiacenti, il problema del rapporto con il Medio Oriente rimane al centro della vita politica ed economica del nostro Paese. Le recenti polemiche di stampa, le controversie sulle responsabilità dell’uccisione di Giulio Regeni in Egitto e sulle consulenze di Matteo Renzi in Arabia Saudita, e il continuo afflusso di immigrati illegali dal Vicino Oriente, confermano che, ci piaccia o no, l’Italia è un Paese mediterraneo, di frontiera fra popoli e civiltà diverse, che per sopravvivere o prosperare deve avere rapporti con gli Stati e i popoli del mondo mediterraneo e islamico. Ma sorge la domanda se c’è nelle élite italiane, in particolare in quelle politiche e intellettuali, consapevolezza di ciò e se oggi ci sia uno sforzo di ragionare e delineare una politica e una strategia razionali e concrete di interazione del nostro Stato con i popoli mediorientali.
Sicuramente in passato, nella cosiddetta Prima Repubblica, questo sforzo vi è stato, così come ci mostra il bel libro del docente dell’Università degli Studi di Bari, Rosario Milano, L’Italia e l’Iran di Khomeini 1979-1989 (Mondadori, 2021) dedicato alla ricostruzione dell’atteggiamento italiano verso la rivoluzione islamica khomeinista e ai rapporti fra Italia e Iran negli anni Ottanta. Fin dall’inizio del Novecento l’Italia liberale e poi fascista, interessata a frenare l’espansionismo francese, russo e britannico in Medio Oriente, aveva visto con favore il consolidarsi e il rafforzarsi di una Persia indipendente. Questa politica di simpatia per la Persia, rinominata Iran, fu proseguita dall’Italia repubblicana. Momento importante dell’intensificarsi dei rapporti italo-iraniani furono gli anni Cinquanta. La missione di Enrico Cerulli, ex funzionario coloniale e profondo conoscitore del Medio Oriente, come ambasciatore a Teheran servì a rafforzare il rapporto della famiglia regnante dei Pahlavi con l’Italia: non a caso Mohammed Reza, in occasione del colpo di Stato contro Mohammed Mossadeq nel 1953, si rifugiò proprio a Roma, consapevole dell’amicizia degli italiani. Cerulli pose le basi per l’intensificazione dei rapporti economici bilaterali, culminati nell’accordo del 1957 fra l’ENI e la società petrolifera iraniana, National Iranian Oil Company, che aprì alla compagnia italiana il ricco mercato petrolifero in Iran. Nel corso degli anni successivi, le relazioni economiche fra i due Paesi s’intensificarono vedendo il regime imperiale di Teheran nell’Italia uno degli interlocutori fondamentali per realizzare il processo di modernizzazione autoritaria del Paese.
Come Rosario Milano ci mostra nel suo volume, questi rapporti continuarono anche con l’avvento del regime degli ayatollah alla fine degli anni Settanta. La spinta al mantenimento dei rapporti venne dall’Iran khomeinista, che vedeva nel nostro Paese uno Stato europeo occidentale meno minaccioso e ostile rispetto agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e alla Francia. Da parte italiana, sia sul piano della diplomazia che su quello dei vertici governativi, chiara rimase la percezione dell’importanza dell’Iran nello scenario mediorientale, nella consapevolezza che si potesse trovare pace e stabilità nella regione solo anche tenendo conto degli interessi della potenza iraniana. Questo atteggiamento equilibrato di Roma si manifestò nel corso della guerra fra Iran e Iraq, scatenata da Saddam Hussein nel 1980 per sfruttare il disordine interno iraniano prodotto dalla rivoluzione a vantaggio delle rivendicazioni territoriali irachene. L’Italia, pur fornendo armi all’Iraq, s’impegnò per facilitare la conclusione della pace fra i belligeranti e insieme alla Germania occidentale fu fra i massimi protagonisti del negoziato che portò alla risoluzione ONU n. 598 e alla fine della guerra nel 1988.
Grazie all’uso di una vasta documentazione archivistica inedita italiana e straniera (dalla documentazione presente nell’Archivio Giulio Andreotti e nel Fondo del Consigliere Diplomatico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, alle carte custodite nel Fondo Direzioni Estero dell’Archivio Storico dell’ENI e nei National Archives di Londra) Rosario Milano offre al lettore una ricostruzione estremamente precisa e documentata delle relazioni italo-iraniane, inserita in un’analisi sofisticata dell’evoluzione politica interna iraniana e delle relazioni internazionali in Medio Oriente fra il 1979 e il 1989. Come nota l’autore, Giulio Andreotti, ministro degli Esteri dal 1983 al 1989 e poi guida dell’esecutivo fino al 1992, fu protagonista di primo piano della politica italiana nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran. Dal libro di Milano emergono con precisione alcuni dei punti di forza dell’Andreotti politico internazionale. In possesso di una visione politica internazionale complessa – prodotto della lezione degasperiana, della tradizione diplomatica italiana e del pensiero politico della Santa Sede –, grazie alla sua capacità di analizzare la situazione internazionale in maniera pragmatica e realista il politico romano riuscì a fare dell’Italia un punto di riferimento per il regime degli ayatollah in Occidente, impegnandosi a mediare sul piano diplomatico per aiutare la Repubblica Islamica a uscire dal sanguinoso conflitto con il vicino Iraq. Come nota l’autore, “gli ayatollah individuarono nel politico democristiano il proprio riferimento in Italia e in Europa, un’àncora di salvataggio in un mondo ostile”.
Molto interessante è anche la ricostruzione che lo storico barese fa dell’atteggiamento delle sinistre italiane verso la rivoluzione khomeinista. Comunisti italiani come Pietro Ingrao, che si reca a Teheran nel giugno 1980 per prendere contatti con i leader rivoluzionari iraniani, interpretano gli eventi in Persia in maniera ideologica, privi di una conoscenza precisa e approfondita della società e della politica iraniane, e affascinati dai temi antioccidentali e antiamericani della propaganda dei pasdaran fanno fatica a percepire il carattere fortemente religioso islamico e anticomunista del movimento guidato da Khomeini.
A nostro avviso, il libro di Rosario Milano consente al lettore di percepire con chiarezza alcuni aspetti fondamentali della politica mediorientale dell’Italia della Prima Repubblica, innanzitutto la centralità degli interessi economici nella politica italiana nella regione. La classe dirigente del nostro Paese era perfettamente consapevole che l’Italia, se voleva crescere e preservare il proprio sviluppo, aveva bisogno di risorse energetiche e di mercati per i propri prodotti, e il Medio Oriente offriva un eccellente interlocutore a tale riguardo. La crisi energetica del 1973-1974 mostrò chiaramente che l’Alleanza atlantica garantiva la sicurezza militare e politica ma non la sopravvivenza economica dell’Italia. Da qui la necessità della ricerca di politiche autonome nei confronti anche dei partner europei e degli Stati Uniti, capaci di tutelare i nostri interessi altrimenti vittime della politica di potenza di Washington in Medio Oriente. Erano inevitabili quindi dissonanze importanti fra la politica italiana e quella americana verso Paesi autoritari e ideologicamente distanti come la Libia di Gheddafi e l’Iran khomeinista. Per lo Stato italiano, il mantenimento dell’equilibrio di potere nel Mediterraneo, della stabilità e della pace in Medio Oriente, sono elementi vitali, mentre per gli Stati Uniti, potenza globale, sono solo una delle tante dimensioni e problematiche della politica estera propria di uno Stato che, a differenza dell’Italia, vive lontano dal Mediterraneo ed è ricchissimo di risorse energetiche e materie prime. In tale contesto generale della politica mediorientale del nostro Paese, l’ENI ha assunto e ha un ruolo fondamentale nei rapporti con l’Iran così come nell’insieme della politica estera italiana, proprio perché il tema del rifornimento energetico è un elemento chiave per la sopravvivenza dell’Italia. La ragione di Stato italiana, gli interessi concreti della nostra nazione hanno imposto e impongono ai leader politici e ai diplomatici italiani il dovere e la necessità di avere rapporti con dittature e regimi autoritari, o con Stati che si ispirano a valori diversi da quelli della società italiana. Per politici come Moro, De Gasperi, Andreotti, Gaetano Martino, Saragat o Craxi (politici democratici che avevano una visione complessa e sofisticata della storia e della politica e che accettavano il pluralismo di idee, valori e modelli sociali), ciò non è mai stato un problema, pur dovendo spesso confrontarsi con atteggiamenti superficiali, astratti e strumentali, prodotto talvolta di ideologismi che nascevano dall’ignoranza e dall’emotività, di importanti sezioni dell’opinione pubblica italiana.
Il libro di Rosario Milano, una ricostruzione innovativa di alcuni momenti importanti della politica estera italiana e delle vicende mediorientali degli anni Ottanta fondata su una metodologia di ricerca storica che fonde l’analisi delle relazioni diplomatiche e politiche con quelle economiche e con gli sviluppi sociali in seno all’Iran e all’Italia, ha il merito di mostrarci l’importanza e la complessità della tradizione della politica estera della Prima Repubblica, che rimane punto di riferimento ineludibile per un Paese come il nostro in preda non solo ad una profonda crisi economica e sociale, ma soprattutto ad una perdita di valori e ideali collettivi e nazionali.
(Pubblicato il 16 febbraio 2021 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)