di Gianluca Pastori
L’Afghanistan è una realtà storica e politica complessa, che le rappresentazioni degli ultimi quindici anni hanno spesso appiattito su un numero ristretto di stereotipi. La “tomba degli imperi” (espressione che già concorre a veicolare una fetta importante dell’immagine del Paese) diviene, in questa prospettiva, una realtà strutturalmente frammentata, ostile e refrattaria a ogni tentativo di modernizzazione. Un’anomalia tanto più eclatante per la natura instabile e policentrica del suo sistema di potere, per l’alto grado di violenza che la caratterizza, per il carattere diffuso di tale violenza, e per l’illegalità che ne permea il tessuto sociale. Esiste una sostanziale linea di continuità fra questo genere di narrazione (che si compendia, oggi, nell’immagine della “donna in burqa” e nel reticolo significati che intorno ad essa si struttura) e la ricca letteratura coloniale che – dagli anni Quaranta del XIX secolo, in coincidenza con la prima guerra anglo-afgana (1838-42) e la sua disastrosa conclusione – ha contribuito in maniera consistente a strutturare l’immagine del Paese e dei suoi abitanti. In questo modo, lo “stereotipo afgano”, con il suo miscuglio ambiguo e inestricabile di valore e villania, diventa epitome di un modo più ampio di intendere, interpretare e rappresentare la natura dell’alterità.
Contro questo sfondo, il libro di Eugenio Di Rienzo (Afghanistan, il Grande Gioco 1914-1947, Salerno Editore) si staglia come una (piacevole) stonatura. Nonostante il titolo possa rinviare a epoche storiche precedenti così come a più recenti vicende, la ricostruzione della politica estera afgana nel periodo delimitato dalle due guerre mondiali restituisce, del Paese, una visione atipica (e, per certi aspetti, straniantemente “occidentale”), insieme allo spaccato di una classe politica impegnata – come quella di molte altre piccole e medie potenze negli stessi anni – a trovare una sua difficile collocazione in un mondo sempre più fortemente e apertamente polarizzato. La rivalità fra le diverse fazioni in lotta a Kabul (solo in parte riconducibile a quella fra il re, Zahir Shah, e il sovrano deposto Amanullah, all’epoca in esilio a Roma) si inserisce, così, in un contesto assai più ampio, che rende ragione della complessità afgana anche (soprattutto?) in termini di relazione con il mondo esterno. Lungi dall’apparire come il soggetto passivo dei tentativi d’influenza altrui, la politica del Paese asiatico emerge dal testo come una realtà complessa e sfaccettata, che sfrutta quegli stessi tentativi da una parte per consolidare una posizione internazionale incerta, dall’altra per raggiungere un equilibrio sostenibile rispetto all’azione delle forze centrifughe da sempre operanti nelle regioni periferiche.
Come se non più che in altre realtà regionali, la storia e la politica dell’Afghanistan sono, infatti, prodotto della continua interazione fra dimensione interna ed esterna. In ciò, il retaggio degli imperi “transnazionali” dell’antichità si somma alla porosità delle frontiere tardo-moderne e contemporanee, tracciate a partire dal XVIII secolo in base all’opportunità politica e militare, alla capacità di controllo del territorio o alle necessità dell’uniformità amministrativa. Ciò si è tradotto, con gli anni, in una stratificazione di poteri e di interessi in costante tensione, in cui la dimensione nazionale si sovrappone a quella locale, e in cui forti sono le interazioni transfrontaliere. Lo stesso Afghanistan ha accarezzato in diverse occasioni la possibilità di un’espansione verso sud, giocando da una parte sulla sua ambigua relazione con le potenze egemoni, dall’altra su una certa intercambiabilità dei concetti di “Grande Afghanistan” e “Grande Pashtunistan”. Oltre che uno snodo geografico fra l’Asia Centrale e il Subcontinente indiano e fra il plateau iranico e i rilievi dell’Hindu Kush, del Pamir, del Karakorum e dell’Himalaya, il Paese rappresenta, così, anche in uno snodo politico e strategico, la cui stabilità si riflette oltre i propri confini e e coinvolge, nell’uomo o nell’altro modo, le diverse regioni che su di esso si affacciano.
In questa prospettiva, le considerazioni sviluppate dal volume di Di Rienzo conservano la loro validità anche nel quadro del “nuovo Afghanistan” attuale. L’enfasi posta sui temi della frammentazione del potere e del ruolo di potenti locali; la rappresentazione della società e dei rapporti sociali in forme essenzialmente “tradizionali”; la descrizione dei comportamenti pubblici e privati con ispirati a un’intrinseca ambiguità, quando non a una morale esplicitamente “doppia”… sono solo alcuni degli elementi che tuttora convergono nella narrazione del Paese e della sua realtà socio-politica. Parte importante di questa narrazione è l’incapacità di produrre un’azione interna o estera coerente, che renderebbe l’Afghanistan “strutturalmente” prono alle influenze (e alle manipolazioni) dei suoi interlocutori. Una visione centrata esclusivamente sulla fragilità statuale afgana rischia, tuttavia, di sottovalutare la capacità degli attori interni – istituzionali o meno – di sfruttare questa apparente fragilità per il perseguimento della propria agenda. Anche se l’aspetto è poco evidenziato, la storia dell’Afghanistan esprime, in questo, un grado significativo di continuità, continuità conseguita proprio sfruttando a proprio vantaggio le tensioni esistenti fra le potenze aspiranti all’egemonia sul Paese e i loro obiettivi contrastanti.
(Pubblicato in «Quaderni Asiatici» ©, 107, 1-2014, Recensioni)