di Luigi Mascilli Migliorini
A guardarlo come appare sulla copertina di questo libro (Roberto Coaloa, Carlo d’Asburgo. L’ultimo imperatore, Il canneto, Genova, pagg. 318, € 18,00) – una fotografia famosa che lo ritrae insieme alla moglie Zita e al figlio Otto mentre assume la corona di Ungheria – il mondo di ieri, rimpianto di Zweig e sorriso di Musil, riprende per un attimo tutta la sua inattuale e per questo seducente esistenza. I segni di un potere più e più volte secolare sono tutti in quella immagine – lo scettro e il diadema di Santo Stefano, il pesante mantello e l’effimera piuma bianca – quasi che nulla fosse mai cambiato, quasi che l’Europa non fosse, da più di due anni, impegnata in una «inutile strage» (la chiamerà così qualche mese più tardi il papa Benedetto XV), e la rote Wien, la rossa Vienna non fosse ormai sul punto di prendere il posto dei valzer e delle operette.
È, infatti, il dicembre 1916 quando sale sul trono degli Asburgo Carlo, l’ultimo Imperatore a cui il gioco del fato, passando per la tragedia privata di Mayerling e per quella collettiva di Sarajevo, regala l’inattesa sorte non solo di essere colui che succede al più longevo tra i sovrani europei, l’odiato-amato Francesco Giuseppe, ma addirittura di essere colui che segna la fine della più illustre dinastia del continente. Incurvato nella veste imperiale Carlo sembra quasi dar ragione a chi allora lo immagina già come l’esecutore testamentario di uno Stato non più in grado di reggere il fardello della modernità.
E invece ha ragione Roberto Coaloa quando prova a farci capire meglio chi sia questo ultimo Imperatore e come si possa non solo con dignità, ma anche in maniera originale, recitare le poche battute che precedono la discesa del sipario e l’uscita di scena. La parte, del resto, che egli si attribuisce all’inizio del proprio regno è di tutto rispetto. Carlo è, con Benedetto XV, il protagonista di una convinta offensiva politica che cerca ostinatamente, per tutto il 1917, di raggiungere una pace in grado non solo di fermare il gigantesco massacro della guerra, ma soprattutto di evitare una conclusione del conflitto che per essere segnata dalla vittoria di alcuni e dalla sconfitta di altri non avrebbe potuto che porre le basi di una non meno sanguinosa rivincita.
Sarebbe, ovviamente, facile mostrare quanto fosse, in quella fase, fragile la speranza e, dunque, l’azione di Carlo, quanto ci si fosse ormai spinti troppo avanti nel sacrificio delle proprie popolazioni perché i contendenti accettassero di tornare sulle posizioni di partenza, quasi che nulla, a eccezione di centinaia di migliaia di morti, fosse accaduto. Eppure è preziosa l’analisi condotta in questo libro dei condizionamenti che la politica di Carlo conobbe da parte degli alti comandi militari tedeschi e dello stesso Kaiser Guglielmo e del rispecchiamento di questi umori nella diplomazia e nell’esercito austriaco. Nella inconciliabile prospettiva tra chi ha giocato tutte le sue carte in un conflitto condotto jusqu’au bout e chi pensa, piuttosto, a una politica capace sempre di ricondurre la ragione delle armi alla ragione politica. E Carlo si rivela, pur nella sconfitta del suo progetto di pace, autentico erede della migliore tradizione asburgica.
L’Europa rimane, dunque, la casa di Carlo anche quando questa casa, dopo il 1918, ha cambiato arredi e abitanti e, forse, più semplicemente non esiste più. O meglio, come era accaduto per un altro, assai più invadente, imperatore, essa si riduce a una piccola isola, Madera, e a una modesta abitazione nella quale – come accade per Napoleone a Sant’Elena – «tutto sa di muffa e i vetri sono sempre appannati». Ma come gli eroicomici tentativi di Carlo di riguadagnare il trono di Ungheria non hanno davvero nulla dello slancio epico dei Cento giorni, così Madera non è Sant’Elena. Essa rinvia piuttosto – osserva bene Roberto Coaloa – alla volontaria reclusione che il più grande degli imperatori di casa d’Asburgo, Carlo V, decise di regalarsi negli ultimi anni della sua vita. Come il monastero di Yuste i giorni di Madera parlano di un congedo dal mondo e dalle sue vanità, sono lezione preziosa sulla pochezza del potere e sul senso effimero dei suoi segni.
(Pubblicato il 3 giugno 2012 – © «il Sole 24 Ore»)