di Eugenio Di Rienzo
Durante il nostro Risorgimento, le aspirazioni autonomiste e federaliste non costituirono un programma monopolizzato da una sola parte politica ma piuttosto formarono un patrimonio comune a quanti (cattolici, liberali, repubblicani, democratici) intendevano conciliare le esigenze della Nazione italiana con le esperienze, le tradizioni, gli interessi dei governi pre-unitari, creando un’architettura istituzionale che poteva meglio garantire la crescita di tutte le componenti territoriali senza eternare antichi contrasti e creare nuovi squilibri. Eppure, nella memoria dei più, questo ideale resta legato alla fortuna o meglio alla sfortuna del federalismo propugnato negli scritti di Carlo Cattaneo, di cui ora viene ripubblicata una scelta assai significativa, accompagnata da un’importante introduzione di Norberto Bobbio (Stati Uniti d’Italia, Donzelli Editore, pp. 148, € 17,50). Per il grande intellettuale lombardo, animoso organizzatore della rivolta antiaustriaca di Milano del marzo 1848, il problema delle autonomie locali non rappresentava solo un problema di organizzazione amministrativa ma costituiva un nodo fondamentale che riguardava la corretta distribuzione del potere tra classe politica nazionale e classi politiche locali e che interessava tutta l’estensione dei diritti economici, civili, sociali di una nazione.
STATO=DISPOTISMO – Il fondamento del suo federalismo non era, infatti, né storico né geografico ma interamente politico e consisteva nel principio secondo cui lo Stato unitario non poteva non essere autoritario e dispotico, perché l’unità centralizzata era automaticamente nemica della libera iniziativa e della libertà. Al contrario, sola la pluralità dei centri politici, e dunque un’unità pluralistica e non indifferenziata, avrebbe fornito un terreno fecondo dove una società moderna poteva prosperare nella direzione del progresso civile. Cattaneo si considerò e venne a lungo considerato il profeta di un’Italia alternativa a quella ipotizzata nel programma di Mazzini e Cavour che, repubblicana o monarchica, doveva essere, in ogni caso, unitaria e centralista. Eppure Cavour aveva dichiarato, nell’ottobre 1860, di «non voler essere accentratore, come dimostrano i pensieri da me espressi intorno all’ordinamento amministrativo dello Stato».
FARINI E MAZZINI – Questa stessa linea di tendenza era stata manifestata, alcuni mesi prima, da uno dei suoi più stretti collaboratori, Luigi Carlo Farini, quando aveva sostenuto che «se vogliamo dare alla nostra Patria gli istituti, che più le convengono, occorre rispettare le membrature naturali dell’Italia, senza spegnere le vive forze locali e senza distruggere l’antico organismo pel quale esse si mantengono e si manifestano». Anche Mazzini precisò che «l’unitarietà non doveva identificarsi necessariamente con l’accentramento» e che il nuovo Stato si sarebbe dovuto convenientemente strutturare «con un interno moto centrifugo dal centro alla periferia». Mazzini non auspicava, quindi, la nascita di un organismo politico rigidamente accentrato ma sosteneva l’opportunità di conciliare l’unità con «una ben intesa autonomia e autarchia delle province e magari delle regioni, per tutto quanto riguardava l’attività legislativa, esecutiva e amministrativa su materie di interesse locale».
MINGHETTI – Nel 1881, infine, Marco Minghetti avrebbe ripreso questo progetto, venuto meno grazie all’opposizione di buona parte del ceto politico nazionale, concentrandosi ora sull’obiettivo di realizzare una sorta di federalismo finanziario, in virtù del quale alle future aree macroregionali doveva essere assegnata «la gestione della gran parte del bilancio della spesa pubblica», per fare di esse delle strutture «economicamente responsabili» per quello che riguardava l’utilizzazione delle proprie risorse.
(Pubblicato l’8 dicembre 2010 – © «Corriere della Sera» – 1861-2011 Nascita di una nazione)