di Eugenio Di Rienzo
Storico tra i più eccentrici del secolo scorso, Ruggiero Romano lo fu in più sensi. Non fu un accademico, anche perché l’università italiana non lo ebbe mai in simpatia e gli negò la cattedra di storia economica da lui più che meritata. Non seguì uno dei due percorsi intellettuali comuni alla storiografia del Novecento: gentiliano-volpiano o crociano. Lasciò prestissimo la sua patria per approdare a Parigi dove ebbe il fulminante incontro con Fernand Braudel e il gruppo delle “Annales” che gli cambiò radicalmente la vita. Ma Romano fu eccentrico soprattutto perché, oltre a coltivare una straordinaria sensibilità non solo di storico ma di intellettuale “a part entière”, rappresentò uno dei protagonisti della modernizzazione editoriale italiana attraverso l’introduzione delle Grandi Opere: la “Storia d’Italia” Einaudi dal 1972, quindi “L’Enciclopedia” in anni successivi e altre straordinarie iniziative editoriali.
Romano eccentrico lo fu anche nel carattere e nella personalità come dimostra il breve ma intenso volume di Aurelio Musi, Ruggiero Romano, edito da Viella, quarto della serie diretta da Andrea Giardina, Roberto Pertici ed Edoardo Tortarolo, dedicata dalla Giunta Centrale per gli Studi Storici a “Storiche e storici dell’Italia unita. Le autobiografie”. Attraverso testi di memorie, narrazioni, ricostruzioni e ricordi l’iniziativa editoriale intende gettare luce sulla forma autobiografica e contribuire a meglio delineare il quadro della storiografia italiana tra Otto e Novecento.
Nel proporre alcune linee di sintesi del suo scritto, scrive efficacemente Musi: “Ambizione, sfida come condotta di vita, prodigiosa capacità progettuale, tendenza a buttarsi nel corpo a corpo, curiosità e gusto della scoperta, provocazione come coazione a ripetere, autoconsapevolezza di essere insopportabile, timidezza, amicizia e dedizione agli altri, doti di seduzione attiva e passiva: Romano si riconoscerebbe nell’insieme di questo profilo”.
Non gli sono certo mancate fissazioni e antipatie. Tra le prime: il chiodo fisso di “de-crocianizzare l’Italia”, l’idiosincrasia per qualsiasi forma di ortodossia, la “storia modello”. Tra le seconde: il viscerale rigetto di Rosario Romeo, ma anche l’antipatia umana nei confronti di Delio Cantimori.
Ha avuto fiuto nell’intuire le qualità intellettuali di alcuni di coloro che ha incontrato e conosciuto. È stato soprattutto – come lui stesso si è descritto e ha continuamente ribadito – uno straordinario promotore e organizzatore culturale in anticipo sui tempi, ma il dirigismo e il sentirsi a tutti i costi l’unico uomo al comando non gli hanno giovato: e “il conflitto fra due egocentrici narcisi, Einaudi e Romano, era destinato inevitabilmente ad esplodere”, annota efficacemente Musi. Ma ha pagato di persona le sue numerose “scottature”.
Forse non aveva tutti i torti Giulio Bollati a definirlo “spinoso e paradossale”. E Giuseppe Galasso lo ha così descritto: “Aveva un carattere aspro, scontroso, tendente di gran lunga più alla contrapposizione che alla mediazione e all’incontro, litigioso quasi per natura, più incline al sarcasmo che all’ironia, ma che celava dietro questa facciata – come fin troppo spesso accade con questo tipo di uomini – non solo un grande bisogno, bensì anche una grande e sperimentabile capacità di affetto e colloquio. Nasconde male un cuore d’oro, diceva e dice di lui Giovanni Busino: e può essere sicuramente confermato da coloro che ebbero con lui rapporti non casuali e non superficiali”.
Musi aveva già scritto a lungo del personaggio nel suo Storie d’Italia (Morcelliana) in cui aveva ricostruito genesi, sviluppi, programmazione e organizzazione della “Storia d’Italia” Einaudi, diretta appunto da Romano e Corrado Vivanti. Ora riprende, attraverso documenti inediti, soprattutto lettere depositate presso la Biblioteca dell’Istituto Superiore di Studi Storici di San Marino, la questione della rottura dei rapporti fra Romano e Giulio Einaudi e i numerosi tentativi di “exit strategy”, per così dire. Ma pagine illuminanti sono dedicate anche alla formazione dello storico di Fermo tra fascismo e dopoguerra, al suo rapporto ambivalente, fra odio e amore, con Napoli, ai fattori di conflittualità con settori dell’ambiente storiografico italiano, all’identità di intellettuale disorganico.
Un testo originale, dunque. Tra i tanti stimoli che offre, uno in particolare si vuole qui ricordare: il senso profondo da Romano attribuito al termine “sprovincializzarsi”, un invito più che mai attuale rivolto alle giovani generazioni della storiografia italiana.
Sprovincializzarsi per uno storico non significa tanto e soltanto tenersi al corrente della bibliografia straniera (in questo senso si può dire che la storiografia italiana è stata sempre al corrente), né significa frequentare congressi internazionali oppure fare una conferenza in una qualche università straniera, quanto saper cogliere quanto di nuovo si affaccia con una sua concreta originalità. Significa altresì essere sensibili alla necessità di uscire dalla provincia costituita dalla propria disciplina. Ancora: vuol dire essere cosciente che la propria opera non è mera erudizione, accumulazione di dati, ma che anche l’edizione critica di un testo ha un suo senso culturale generale (e spesso anche politico).
(Pubblicato il 1° gennaio 2023 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)