di Marco Valle
Alla fine degli anni Venti del Novecento il regime fascista si accinse ad abbandonare l’iniziale linea di prudenza e di “basso profilo” internazionale che aveva consentito al gruppo dirigente di consolidare il potere interno, rilanciare l’economia, normalizzare, sebbene a caro prezzo, la Libia ed ottenere piccoli (e poco soddisfacenti) aggiustamenti lungo le frontiere africane.
Con l’incrinarsi del quadro post-bellico seguito alla crisi economica globale, Benito Mussolini e Dino Grandi, ministro degli Esteri tra il ’29 e il ’32, inaugurarono la politica del “peso determinante” e dell’equidistanza: una strategia pragmatica tesa a presentare l’Italia come l’ago della bilancia dello status quo continentale e finalizzata ad ottenere il pieno riconoscimento del ruolo italiano nel “direttorio europeo”. Ma non solo. Di fronte all’assemblea quinquennale del Partito nazionale fascista, Mussolini suggellò la nuova linea geopolitica nazionale: “Gli obiettivi hanno due nomi: Africa e Asia. Sud e Oriente sono i punti cardinali che devono suscitare la volontà e l’interesse degli italiani […] Questi nostri obiettivi hanno la giustificazione nella geografia e nella storia. Di tutte le grandi potenze occidentali d’Europa, la più vicina all’Africa e all’Asia è l’Italia. Nessuno fraintenda la portata di questo compito secolare che io affido a questa e alle generazioni italiane di domani. Non si tratta di conquiste territoriali […] ma di un’espansione naturale che deve condurre alla collaborazione fra l’Italia e le nazioni dell’Oriente”.
Da qui una serie d’iniziative “metapolitiche” importanti: la prima edizione a Bari nel 1930 della Fiera del Levante, il rilancio dell’Istituto orientale di Napoli, la creazione, con sede al Cairo e corrispondenti nel mondo islamico, dell’Agence d’Egypte et d’Orient, l’inizio delle trasmissioni in lingua araba nel ’34 di Radio Bari, i congressi a Roma degli studenti asiatici e la fondazione, il 16 febbraio 1933, dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, l’Ismeo. L’iniziativa scientifica più ambiziosa e politicamente più ardita.
Per la prima volta dall’Unità il governo di Roma promuoveva e impostava, investendo risorse importanti, un serio progetto culturale – prodromico a quella collaborazione economica e politica auspicata dal duce – verso l’Asia e, in particolare, l’India. Prendeva così forma quella contradditoria, intermittente ma a volte efficace ”strategia dell’attenzione” mussoliniana (e già dannunziana…), ben descritta da Renzo De Felice nel suo Il Fascismo e l’Oriente, verso popoli ormai insofferenti del dominio coloniale britannico, olandese e francese.
Una passione e un interesse risalenti alla “Lega dei Popoli oppressi” di Fiume – in cui l’orbo vate aveva “arruolato” virtualmente anche gli indipendentisti del Ghadar Movement – e ribadita più volte dagli articoli di Mussolini sul Popolo d’Italia; nel settembre 1921 il futuro duce, commentando i fatti indiani, scriveva: “Una razza si è risvegliata. È in piedi. Il raggiungimento dell’indipendenza dell’India è solo una questione di tempo”. Suggestioni e ipotesi che motivarono nel maggio 1926 l’invito ufficiale di Mussolini al poeta Rabindranath Tagore, primo asiatico insignito del premio Nobel, e la visita romana di Gandhi nel 1931, suggellata da un incontro a Palazzo Venezia tra il Mahatma e il duce.
A dirigere l’Istituto, presieduto formalmente dal filosofo Giovanni Gentile, fu chiamato un personaggio sorprendente quanto fascinoso: Giuseppe Tucci. L’uomo giusto nel posto giusto. Nato il 5 giugno 1894 a Macerata, figlio unico di una coppia pugliese, il ragazzo sin da giovanissimo si distinse per la sua passione per lingue e culture remote e lontanissime (figuriamoci poi nella Macerata del tempo…) come il sanscrito o per gli esercizi yoga. Insomma, un ragazzo fuori dal comune e molto, molto ambizioso.
Come scrive Enrica Garzilli, autrice di una monumentale quanto fondamentale biografia – L’esploratore del duce, due volumi di ben 1496 pagine complessive – il personaggio aveva già le idee chiare sin dall’adolescenza: “Tucci disse che cominciò a interessarsi dell’Oriente da ragazzo, studiando le gesta di Alessandro Magno che, come si sa, invase parte dell’Asia e nel 326 a.C. conquistò parte dell’India. Da qui si capisce anche il suo carattere: forte, accentratore, conquistatore. Conquistò vette, potere, fama, onori, e una cultura assolutamente fuori dal comune. E non esitò a usare tutti i mezzi per raggiungerli”.
Diplomato “con onore” nel 1912 al Liceo Classico Leopardi, Giuseppe si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Roma dove sviluppò sempre più la sua attenzione sulle civiltà asiatiche affiancando lo studio del cinese alle ricerche sul buddhismo.
Nemmeno la Grande Guerra a cui partecipò con il grado di tenente distrasse il giovane dai suoi molteplici interessi – compreso l’apprendimento negli anni di trincea dell’ebraico e del persiano… – e nel 1919 si laureò a pieni voti con una tesi intitolata Sull’importanza e dello stato attuale degli studi di storia di filosofia orientale. Il primo passo di una carriera accademica folgorante.
Ottenuta nel 1923 la libera docenza in lingue e letterature dell’Estremo Oriente e l’anno dopo la docenza di religioni e filosofie dell’Estremo Oriente, Tucci si poteva già definire una vera autorità tra gli studiosi nostrani – invero pochi… – di orientalistica. Ma le aule e il tran tran universitario presto annoiarono il suo spirito inquieto. Nel novembre 1925, liquidato un primo matrimonio, il professore si trasformò in un viaggiatore molto particolare. Grazie a proprio a Tagore.
Nel suo confortevole soggiorno romano il sapiente indiano ebbe espressioni di stima per il regime e il suo capo che a sua volta presenziò alla conferenza del poeta alla Sapienza. Nelle successive conversazioni, Mussolini promise a Tagore un aiuto concreto per l’Accademia privata di Vishva Bharati, fondata dal Nobel a Shantiniketan, nel Bengala. L’accordo prevedeva l’invio di materiali didattici e di due docenti italiani, tra cui Tucci. Il sogno lungamente meditato, consumato e sempre ripreso finalmente si realizzava. Con molti imprevisti e qualche iniziale delusione.
La realtà indiana era ben altra cosa e ben più complessa della visione libresca su cui Tucci come i suoi colleghi universitari avevano costruito una narrazione dotta quanto fantasiosa, a tratti persino irenica. L’Asia vera era la terribile miseria e l’incredibile rassegnazione di sterminate plebi scandalosamente sovrastate dallo sfarzo di vecchie e inutili aristocrazie su cui lampeggiava un ancor flebile ma crescente movimento intellettuale e politico ansioso di libertà e indipendenza. D’Annunzio e Mussolini, per una volta, avevano visto giusto. E Tucci lo comprese subito. Come annota Oscar Nalesin nel suo saggio dedicato all’esploratore: “Negli ultimi anni della sua vita ascriverà all’impatto dovuto a quella prima immersione nell’umanità del subcontinente l’allontanamento dalla visione romantica dell’India allora molto diffusa tra gli orientalisti europei”.
Il soggiorno a Shantiniketan fu però di breve durata. Pochi mesi dopo l’arrivo della missione italiana Tagore, su consiglio dei suoi ammiratori antifascisti italiani e stranieri fece una brusca marcia indietro rimangiandosi i giudizi positivi sul regime (per poi, come precisa De Felice, quattro anni più tardi scrivere a Mussolini un’imbarazzata lettera di scuse…). Ovviamente Roma ruppe ogni rapporto con l’università e richiamò in patria i docenti ma Tucci decise di restare in Asia. L’inizio della grande avventura himalayana: otto spedizioni tra il 1928 e il 1948.
In compagnia della sua seconda moglie Giulia Nuvoloni, il professore si recò nel Ladakh e poi in Nepal – posti magnifici, sconosciuti e all’epoca terribilmente inospitali – per studiare usi, costumi locali e territori. Sfruttando poi abilmente le sue entrature nell’amministrazione coloniale inglese – parallele alle frequentazioni con gli ambienti intellettuali del movimento indipendentista – decise di ripercorrere le tracce di Ippolito Desideri, il gesuita pistoiese che nel Settecento aveva varcato i confini della teocrazia lamaista. Ottenuto dai britannici uno speciale lasciapassare entrò per la prima volta in Tibet, stato allora indipendente ed ermeticamente chiuso agli stranieri, e raggiunse faticosamente gli empori di Gartok, Yatung e Gyantse, i soli mercati aperti al commercio con l’estero. Durante il periglioso viaggio Tucci iniziò a raccogliere e fotografare oggetti e testi rari, preziose testimonianze della fede buddhista in versione tibetana. L’inizio di straordinaria collezione di statue, reliquie e ornamenti, oltre a un vasto e prezioso patrimonio di libri, incunaboli, pergamene e 25mila fotografie.
Rientrato in Italia nel 1931 l’uomo era ormai una celebrità. Accademico d’Italia dal 1929, cattedratico “per chiara fama” dell’Università di Roma, nel 1933 Tucci, come sopra accennato, divenne vicepresidente dell’Ismeo e uno dei protagonisti della politica orientale di Mussolini. Come spiega la professoressa Garzilli: “Il potere aiutò sempre Tucci, e viceversa. Lo usò e fu usato a sua volta. Tucci fu protagonista della politica culturale e della politica asiatica in senso stretto attuata da Mussolini. Il fascismo lo usò per la propaganda in Italia e la propaganda in Asia”.
Come abbiamo visto, si trattò di una collaborazione assolutamente non sgradita poiché, proprio grazie ai copiosi finanziamenti forniti dal regime, Tucci organizzò nuove spedizioni nel Nepal e nel Tibet percorrendoli in lungo e in largo con straordinari risultati scientifici; al tempo stesso l’avventuroso sapiente con cadenza quindicinale spediva precisi resoconti direttamente al duce. Da qui, nel dopoguerra, le accuse di spionaggio, ma chiunque abbia letto con minima attenzione gli splendidi libri di Peter Hopkirk sul “great game” comprende con facilità quanto esplorazione, letteratura e intelligence fossero al tempo sinergiche sotto ogni bandiera. Compresa quella tricolore.
Di certo Tucci fu protagonista informale ma sostanziale – come confermano i ripetuti viaggi in Giappone e gli archivi della Farnesina – del processo d’avvicinamento diplomatico a Tokyo, culminato nel 1937 con l’adesione dell’Italia patto anti Comintern. Nel suo libro La lupa e il Sol levante, Tommaso De Brabant sottolinea come, una volta arrivato nella capitale nipponica il maceratese “tenne anche un discorso in giapponese, portando i saluti del duce, per poi aprire a Tokyo e Kyoto sedi dell’Istituto culturale italo-giapponese e impostare un programma di scambi culturali e commerciali”.
Scoppiata la guerra, il professore, ormai impossibilitato a viaggiare, oltre a dedicarsi allo studio e alla catalogazione degli ingenti materiali raccolti e chiudere il suo secondo matrimonio, dal gennaio 1941 all’agosto 1943 collaborò attivamente con la rivista Yamato, raffinato mensile culturale italo-giapponese ma anche sostenitore del patto Tripartito. La classica goccia del classico vaso.
Nel giugno 1944 gli anglo-americani entrarono a Roma e un mese dopo le nuove autorità epurarono Tucci dall’università per la sua “partecipazione attiva alle politica del fascismo”. Una brillante carriera incenerita di colpo. Ma l’uomo non si arrese (non era il tipo…); da subito iniziò a bombardare gli epuratori di memoriali e documenti e ad attivare la sua vasta rete di contatti. Alla fine l’ebbe vinta e l’8 gennaio 1946 fu richiamato in servizio attivo.
Grazie all’appoggio felpato ma efficace di Giulio Andreotti, nel 1947 l’Ismeo riaprì i battenti con Tucci presidente. Un rapporto continuato fino alla morte del professore, “più diplomatico e discreto da parte del senatore, vissuto con più enfasi da Tucci”, spiega Garzilli, che sottolinea quanto detto dallo stesso Andreotti sulla genesi di questo legame. “All’epoca era difficile distinguere tra lo scienziato e il personaggio che legato al fascismo. Io lo feci”. L’anno dopo arrivò l’autorizzazione del governo tibetano per recarsi a Lhasa, la città proibita; grazie ad un cospicuo finanziamento governativo (auspice il “divo Giulio”) si organizzò una spedizione che raggiunse la capitale tibetana dove il professore incontrò il Dalai Lama, l’allora tredicenne Tenzin Gyatso, che affascinato dalla sua personalità gli affidò in custodia una preziosa collana di volumi sacri (ovviamente mai restituiti…). Resta il fatto che gli scienziati italiani furono probabilmente gli ultimi occidentali a respirare le atmosfere dell’antica teocrazia himalayana. Nel 1950 la Cina maoista strinse nella sua morsa il Tibet e nove anni più tardi, fuggito il Dalai Lama in India, annesse l’intero territorio.
Chiuso il capitolo tibetano l’infaticabile presidente dell’Ismeo con la sua nuova compagna Francesca Bonardi, accompagnò Andreotti in Brasile nel 1951 poi si rivolse al Nepal, con due spedizioni nel 1952 e nel 1954, al Pakistan, in Afghanistan e all’Iran. Campagne di scavo con ritrovamenti importanti. Il suo ultimo capolavoro diplomatico-scientifico fu però l’invio nel 1957 di una missione dell’Ismeo in Cina, tredici anni prima del riconoscimento ufficiale italiano e il riavvio delle relazioni tra Roma e Pechino. Un’operazione di soft power sinergica delle politiche “neo-atlantiste”di Gronchi, Fanfani e Mattei. Non pago, sempre in quell’anno, Tucci fondò il Museo d’arte orientale a Roma dove concentrò le collezioni dell’Istituto (oggi, dopo lo scioglimento dell’Ismeo nel 2012, sono custodite nel Museo delle civiltà e nella Biblioteca Nazionale di Roma).
Negli ultimi anni il professore smise di viaggiare e s’impegnò sempre più a scrivere e a pubblicare, ma nell’Italia del tempo era ormai diventato un personaggio scomodo. Vi era chi rinvangava (spesso artatamente) il suo passato mussoliniano, chi non sopportava il suo rapporto con il potere politico, chi – tra cui molti suoi allievi – lo invidiava e basta. Non a caso dalla sua morte, il 5 aprile 1984, sulla sua eccezionale figura e la sua imponente opera è sceso il silenzio, il buio. Da qui l’importanza del libro, innovativo quanto a tratti “inopportuno”, di Enrica Garzilli. I geni, anche se scomodi, vanno ricordati.
(Pubblicato il 28 dicembre 2022 © «Inside Over» by il Giornale.it)
Inizio pagina