di Lino Patruno
Ma perché continua la guerra civile fra Nord e Sud d’Italia? Perché negli stadi continuano i cori per invitare il Vesuvio a lavare col fuoco i puzzolenti napoletani? Un Paese che è riuscito (più o meno) a trovare un punto di discussione sul fascismo, la Resistenza, gli “anni di piombo”, Coppi e Bartali. Ma che 156 anni dopo non riesce a parlarsi sull’atto di nascita della sua unità, anzi disunità. Soprattutto non riesce a riconoscere l’onore delle armi ai caduti meridionali di quella che fu, papale papale, una invasione e una conquista militare. Onore delle armi attribuito addirittura ai soldati di Salò, come in America lo hanno riconosciuto ai pellerossa e non solo per Sand Creek e il generale Custer.
Perché. Questo interrogativo che è ancora un Muro sulla vita nazionale fu posto dallo storico (e giornalista) Paolo Mieli al collega Eugenio Di Rienzo, docente alla Sapienza di Roma. Che proprio dall’interrogativo è partito per il suo libro “L’Europa e la “Questione napoletana” 1861-1870” (D’Amico Editore, pag. 158, € 12,00). Grande attualità, visto che in questi stessi giorni Forza Italia ha presentato alla Camera una mozione per l’istituzione di un “Giorno del ricordo” appunto per le vittime dell’unificazione al Sud. E analoga iniziativa ha avuto il M5S nelle regioni Puglia, Campania, Basilicata, Molise. Mentre a Gaeta, ultimo baluardo della resistenza borbonica, un “Muro del Ricordo” sta sorgendo con le mattonelle di tutte le città attraversate dall’esercito sabaudo.
Sotto accusa sono ovviamente modi, tempi e mezzi con cui l’Italia si ritrovò Italia senza la partecipazione, anzi contro, la sua parte più grande e numerosa, cioè il Regno delle Due Sicilie. Che, nonostante la “leyenda nigra” contro i Borbone aizzata in tutta Europa, si ritrovò dopo paradossalmente difeso proprio da chi aveva contribuito a precipitarlo. Cioè gli inglesi. Prima alleati di Garibaldi, e non solo in Sicilia. Poi tanto consapevoli di quanto avvenuto e avveniva da ribaltare sui piemontesi addirittura l’accusa di crimini contro l’umanità per i loro metodi di terra bruciata al Sud. Italia nata, si disse, da un “legno storto” (il libro riporta anche il memorabile discorso di lord Lennox alla Camera dei Comuni l’8 maggio 1863).
Se questa riconversione avvenne, gran ruolo vi ebbe il governo in esilio di Francesco II, che dal febbraio 1861 si era trasferito a Roma, a Palazzo Farnese. E che, guidato da Calà Ulloa, di lì condusse un’azione con due anime. Una era quella dei lealisti che vedevano come unico mezzo per tornare a Napoli la lotta armata e il finanziamento del brigantaggio. L’altra era quella dei moderati liberali più orientati verso un’azione diplomatica. Così, da Londra a Parigi, la “Questione napoletana” divenne terreno di scontro politico non solo all’interno ma fra i due Paesi.
Il fatto è, spiega Di Rienzo, che l’Italia appena riconosciuta come nuovo Stato sovrano, non era ancòra Italia sia sui campi di battaglia sia nell’animo della gente del Sud. Ciò che poteva creare in Europa una instabilità dagli altri Paesi un po’ temuta un po’ sperata per rimettere in gioco le proprie influenze e le proprie convenienze. Discussione cui non era estranea la questione della camorra, che tutti sapevano aver consentito ai Mille di prendere e poi conservare Napoli (come le bande di agrari avevano fatto in Sicilia). Né era estranea la farsa dei plebisciti per l’annessione, il cui risultato quegli avanzi di galera ottennero con i loro noti sistemi.
Di Rienzo è anche autore di un precedente libro nel quale, con documenti inediti alla mano, dimostrava come già da decenni era cominciata in Europa quell’opera di diffamazione del Regno borbonico che lo doveva far apparire non solo come il Regno del Male. Ma doveva creare le premesse per toglierlo di torno in un Mediterraneo dalla grande importanza strategica e dai molti appetiti. Qui ci racconta la nascita di una nazione, anzi la sua non nascita. Senza avallare presunti paradisi al Sud, ma anche senza negare che quel Sud avesse poco o nulla di meno di altri in un’Italia tutta sostanzialmente povera. Col Sud prezioso per risorse finanziarie molto più consistenti di quelle altrui, e provvidenziali per i disastrati bilanci piemontesi.
La fine dell’avventura del governo borbonico in esilio coincise col mutamento del quadro internazionale. Soprattutto le guerre europee, al termine delle quali il suo maggior alleato, l’Austria, dovette cedere il Veneto e riconoscere la nuova Italia. Il 21 aprile 1870 Francesco II si trasferì a Parigi. Cinque mesi dopo cadde anche Roma.
Il passaggio successivo della Questione napoletana fu la Questione meridionale. Fra colonialismo, razzismo e sfruttamento al Sud, conferma Di Rienzo. Ma anche una sorta di meridionalizzazione dell’Italia, con i meridionali nella struttura burocratica, amministrativa e politica del Paese più di quanto non lo potessero essere in quella economica e industriale. Anzi come alternativa obbligata. Dopo di che, conclude Di Rienzo, ci si chiede perché il Sud così generosamente nazionalizzato si sia poi dimostrato incapace di nazionalizzarsi anche economicamente. La risposta (di sicuro Di Rienzo lo sa) non è nel cielo ma nella logica dello sviluppo capitalistico. Che funziona come una palla di neve: si ingrossa dove è caduta (o è stata fatta cadere) la prima neve.
(Pubblicato il 5 marzo 2017 – © «Gazzetta del Mezzogiorno»)