di Roberto Beretta
I napoletani? Deportiamoli tutti nel Borneo… Non è l’ennesima idea del solito leghista «allegro», bensì un progetto pianificato e perseguito per almeno un decennio dal governo sabaudo poco dopo l’Unità d’Italia.
Ci sta anche questo nelle celebrazioni per il 150° dello Stato; una vicenda finora poco nota, alla quale Giuseppe Novero dedica ora il libro I prigionieri dei Savoia. La storia della Caienna italiana nel Borneo (Sugarco, pp. 164, € 18,00). Una Caienna mancata, per la verità, perché il proposito rimase fortunatamente solo sulla carta e mai nessun italiano subì sul serio la deportazione – come invece accadeva ai francesi, per esempio, o ai sudditi di Sua Maestà britannica nelle terre vergini dell’Australia.
Dieci o ventimila meridionali trasferiti di forza in qualche isoletta dell’Oceano Indiano. E il fallimento dell’impresa non fu certo dovuto a cattiva volontà, bensì soltanto alla carenza di spazi disponibili… Del resto, bisogna capire anche i piemontesi: dopo la conquista del regno delle Due Sicilie si erano trovati di fronte un problema logistico non da poco: da un lato il crescente brigantaggio, combattuto militarmente ma i cui esponenti – una volta catturati – dovevano essere imprigionati per lungo tempo, e possibilmente lontani dal luogo di nascita; dall’altra gli ex soldati dell’esercito borbonico, per i quali Cavour sconsigliava l’arruolamento sotto le bandiere del nuovo Regno e che del resto in molti casi non lo volevano nemmeno, restando fedeli al loro sovrano.
Che fare di queste masse, sempre inquiete e facile serbatoio potenziale per future rivolte anti-unitarie? La prima risposta fu il confino, ovvero il trasferimento coatto – via nave fino a Genova oppure con tradotte ferroviarie – in Piemonte, dove i prigionieri stiparono il freddissimo forte di Fenestrelle, tra Pinerolo e Sestriere (un migliaio di borbonici, oltre a 500 garibaldini arrestati nel 1862 in Aspromonte), e soprattutto l’ex campo per le manovre militari di San Maurizio Canavese, poco fuori Torino, dove dalla metà del 1861 in poi passarono circa 12.000 sbandati ex borbonici, con l’intento di «rieducarli» per immetterli nei ranghi dell’esercito dell’Italia unita. Ma non poteva durare, sia per problemi di disciplina (i tentativi di insurrezione e le fughe di singoli mettevano in allarme l’ordine pubblico locale), sia per le proteste dell’opinione pubblica: anche «La civiltà cattolica», ovviamente anti-sabauda, si lamentava per il trattamento dei prigionieri.
«Nel 1862 – scrive Novero – il governo di Torino si trovò assediato da prigionieri di guerra, detenuti politici, abitanti di interi paesi accusati di brigantaggio e deportati, soldati renitenti alla leva, delinquenti comuni, cospiratori repubblicani».
Fu così che nacque l’idea di un luogo da adibire alla deportazione e i primi tentativi furono esperiti per via diplomatica. A novembre 1862 si provò col Portogallo, che aveva vaste colonie in Africa e Asia; nel 1867 furono avviati contatti con Londra per avere il permesso di occupare parte dell’Eritrea; nel 1868 si interessò l’Argentina: poteva essere adatta la landa disabitata del Rio Negro, verso la Patagonia; poco dopo si studiava la possibilità di una colonia penale comprata in Tunisia e ancora più oltre si esaminò l’arcipelago indiano delle Nicobare. Ma ogni ipotesi fallisce, soprattutto per il sospetto che la nuova Italia volesse in questo modo insinuarsi nella politica colonialistica e «imperiale» delle altre grandi nazioni.
La ricerca più sistematica viene effettuata nel Borneo, addirittura con due spedizioni distinte e contemporanee (e di conseguenza anche con qualche disguido diplomatico): quella «privata» dell’esploratore Giovanni Cerruti, spedito con carte da plenipotenziario alla fine del 1869, e quella militare della nave Principessa Clotilde, comandata dal capitano Carlo Alberto Racchia. Fu quest’ultimo – uomo di notevoli capacità, che più tardi sarà a capo della Marina italiana e senatore – a individuare un’area salubre e fertile, libera da pretendenti politici e quasi disabitata, a nord del Borneo, presso la baia di Gaya. Vengono avviate promettenti trattative col locale sultano di Brunei, ma i veti vengono poi dai governi di Inghilterra e Olanda, che avevano molti interessi economici nella zona e che – dopo alcuni anni di trattative – sbarrarono la strada all’iniziativa italiana. E fu così che, se i poveri meridionali non si recarono all’estero in qualità di prigionieri e deportati, ci andarono ugualmente di lì a poco e di loro volontà: come emigranti.
(Pubblicato il 17 marzo 2011 – © «Avvenire»)