di Paolo Simoncelli
«Ancora io non mi persuado dell’interesse che ha avuto l’Inghilterra, e che ha ferocemente perseguito, di rendere debole e impotente e quasi annullare l’Italia, che era ed è necessaria all’Europa tutta. E un lampo mi rischiarò la mente, quando il signor Churchill dichiarò sprezzantemente che l’Inghilterra non ha bisogno dell’Italia, né della Spagna, né della Germania». A scrivere queste note sconsolate, nel settembre 1947, non era un reduce di Salò ma l’alfiere liberale dell’antifascismo, Benedetto Croce, che denunciava lucidamente la politica di potenza britannica e la pace “punitiva” anziché “costruttiva” cui fummo sottoposti. Non credeva quindi che l’indipendenza italiana fosse «felicemente destinata a dissolversi in nuove forme d’integrazione sovranazionale». Testi pubblici a disposizione di chiunque.
Sosteneva un antico maestro di studi storici, Armando Saitta, che nulla è più inedito dell’edito. Insegnando con ciò la necessità della costante rilettura di fonti capace di sovvertire tradizioni storiografiche dogmaticamente radicate e politicamente controllate. Un esercizio eseguito con coraggio da Eugenio Di Rienzo, noto per i suoi recenti studi sulla politica estera italiana durante il fascismo, che oggi sottrae Croce, fra gli anni tragici in cui si chiudeva la guerra e si aprivano nuovi scenari internazionali, allo “stralunato patchwork” politicamente imposto dalla necessità di fornire un’immagine compatta e non scomponibile dell’antifascismo italiano.
Una convivenza forzata
Il liberalismo di Croce era con ciò forzato a convivere col democraticismo di Giovanni Amendola, col ribellismo di Ernesto Rossi, coi furori di Gaetano Salvemini («sciagurato Salvemini», per Croce capace solo di «ingiuriare e calunniare») e addirittura con i quadri comunisti. Una rilettura che porta Di Rienzo a ridefinire e riposizionare persone e culture politiche tra loro inafferenti e anzi avverse, smontando la narrazione pubblica di un’unità politico-culturale dunque falsata e tale da giustificare il titolo della collana “dritto/rovescio”, diretta dallo stesso Di Rienzo e inaugurata da questo suo importante lavoro, Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino Editore, 2019, pp. 178, € 14,00). Volume che restituisce Croce alle sue fonti dirette e che, muovendo da considerazioni interne alla ricomposizione del quadro politico italiano dopo la “congiura di palazzo” del 25 luglio ’43, rilegge con clamorose conseguenze, come quelle dei rapporti subordinati con l’Europa, alcuni dei maggiori snodi di politica internazionale in cui furono coinvolti tutti i governi italiani, da quelli badogliani del Regno del Sud, a quelli di Bonomi, Parri, De Gasperi.
Un itinerario politico-storiografico dunque ricco; e profondamente amaro. Impietoso il bisturi di Di Rienzo nell’incidere e far scoppiare la grande farsa della tradizionale inclinazione britannica favorevole, per le sorti istituzionali dell’Italia, alla monarchia piuttosto che ad una radicale e imprevedibile repubblica. Macché! Fu, invece, un brutale disegno geopolitico anti-italiano a dominare Londra, di cui Croce continua ad essere imbarazzante e micidiale testimone d’accusa. Un disegno che prende avvio dall’agghiacciante armistizio dell’8 settembre ’43, con clausole così dure e umilianti a danno dell’Italia da dover essere tenuto segreto per tutelare e mantenere al vertice dello Stato italiano un re fellone e un governo imbelle come quello di Badoglio. Uno Stato così screditato era, infatti, la miglior garanzia dello “sgabello per i piedi” britannico.
L’Italia doveva essere punita per aver alzato la testa e posto in discussione l’egemonia britannica nel delicato scacchiere mediterraneo. Giudizi impressionanti quelli di Croce, ricordati da Di Rienzo, sulla violenza inglese contro l’Italia. Condivisi anche da importanti esponenti antifascisti di tradizione liberale come Vittorio Emanuele Orlando e da gran parte della nostra diplomazia.
Il Trattato di pace del 1947
Umiliata e isolata, l’Italia riuscì a reagire con un sussulto di dignità e astuzia diplomatica, grazie al Segretario generale agli Esteri, Renato Prunas, ristabilendo a sorpresa rapporti diplomatici con Mosca che costrinsero Londra e Washington a riconoscere formalmente la King’s Italy. Ma quella vittoria che ci consentì di uscire dall’inerte status di «Paese armistiziato», fu una vittoria di Pirro almeno sul piano sostanziale. L’Urss premette subito per favorire le pretese di Tito sulla Venezia Giulia, per pretendere risolutamente un’epurazione antifascista-antiborghese proprio mentre, da parte del PCI, si promuoveva una sanguinaria lotta partigiana che fu insieme antiborghese e antifascista. Altra resistenza, altra nobiltà ideale sarebbe stata quella manifestata da Croce contro la ratifica del Trattato di pace del 10 giugno 1947, vissuto come violenza inferta all’Italia tutta, senza distinzione tra fascisti e antifascisti. Persino Salvemini e Leo Valiani allora si schierarono con Croce e Pietro Nenni, forse, fu sul punto dal farlo.
Tutto inutile; quell’antica Italia risorgimentale fondata su onestà, patriottismo, etica pubblica… veniva ora aggredita da nuove malavitose classi dirigenti. Croce, nonostante i suoi rapporti affettuosi con De Gasperi, in nome della lotta comune conto l’«Anticristo bolscevico», ne percepì la pericolosa presenza anche nella DC con cui aveva combattuto per l’ingresso dell’Italia nella Nato. Persino in quella DC dei tempi che furono, Croce ravvisò una posizione «che piuttosto che avversaria, è complice del bolscevismo». Fu facile profeta: si profilava l’ombra di un partito maggioritario ladro di voti moderati in nome di un anticomunismo di sola facciata, ostile, nei fatti, allo stato di diritto, allegramente incompetente a misurare la distanza del sogno dalla realtà di un’Europa che sostituiva Atene con Francoforte, l’oro all’usura, le radici classiche e cristiane con le imposizioni finanziarie.
(Pubblicato il 21 giugno 2019 © «Libero»)