di Alessandro Guerra
Ingombra delle macerie del secolo scorso, la riflessione sulla Rivoluzione francese sembra aver perso da qualche anno la spinta alla ricerca della complessità che l’ha guidata per molto tempo. L’impatto della forza delle idee e delle cose, sia pure condizionata dalla variabile ideologica, ha smesso di guidare l’interpretazione della realtà rivoluzionaria, la cui comprensione si è preferito inseguire sul terreno del simbolico e della critica concettuale. Il risultato è stato l’invenzione di una grammatica comparatistica che – con una carica ideologica se possibile ancora più marcata della storiografia precedente – ha messo in discussione la via alla modernità della Rivoluzione francese, rimuovendo la centralità del 1789. A dispetto dei molti profeti di sventura, la Rivoluzione francese è una storia ancora viva, come ha ricordato recentemente un magistrale saggio di Michel Vovelle. Nonostante da tempo e da più parti la Rivoluzione sia stata contestata, svilita, oltraggiata, la sua storia, i suoi principi, persino le sue aporie dove si trovano e, ancora, la passione di chi allora immaginava nella propria rigenerazione il riscatto dell’intera umanità, sono ancora in grado di fornirci le chiavi per leggere e comprendere il presente. È questa l’impressione che si ha leggendo il libro di Jean-Clément Martin (La machine à fantasmes. Relire l’histoire de la Révolution française, Paris, Vendémiaire, 2012, pp. 318, € 22), oggi forse uno fra i migliori interpreti della storiografia francese.
Uno storico della Rivoluzione abbastanza anomalo, Martin: si può dire che il suo campo di esplorazione maggiore è stato, fino a qualche tempo fa, la controrivoluzione, di cui ha disegnato con accuratezza il profilo globale, restituendola alla ricerca storica dopo anni di vuoti esercizi dilettanteschi da parte dei reduci, orfani del trono e dell’altare. Con ben altro metodo e rigore, Martin ne ha ricostruito modalità d’azione e dottrina fino a modellare una vera e propria storia della mentalità controrivoluzionaria. E anche in questo volume non manca il battito segnato dalla controrivoluzione, ma inserito nel più complesso tempo della Rivoluzione. Tuttavia, così come questo libro non mette in scena la lotta fra bianchi e blu, allo stesso modo non è una classica storia della Rivoluzione con la ripetizione di fatti, date, interpretazioni (peraltro Martin assolve anche questo compito avendo appena pubblicato per Perrin la Nouvelle histoire de la Révolution française); si potrebbe anzi dire che in questo libro sono raccontate le tante storie dalla Rivoluzione francese. Una molteplicità di punti di vista, anche i più «esotici» dice l’A., che nella diversità delle prospettive mettono a fuoco la profondità di campo del fenomeno rivoluzionario e permettono oggi allo storico «vagabondo» di confrontare le intenzioni espresse dagli attori del passato, il loro movimento per verificare cosa si è sedimentato di quegli eventi nella coscienza collettiva.
La Rivoluzione genera fantasmi, titola Martin, che è da privilegiare rispetto a quel riferimento alla “macchina” che rimanda troppo al filone storiografico inaugurato da Cochin che davvero poco o nulla ha dato alla comprensione del processo rivoluzionario, se non i suoi incubi. Al contrario, piace rimarcare come nel libro di Martin la pluralità rimandi alla materialità della vita che scorre nelle pieghe della Rivoluzione, si potrebbe dire parafrasando Henry Michaux, animando i fantasmi che lo storico è chiamato a comprendere, per dare loro pace con la narrazione. Se non compreso, il passato genera fantasmi e a nulla valgono i decreti di ricomposizione forzata della memoria, come suggerisce Martin a partire dal tableau di François Flameng dedicato al massacro di Machecoul del 10 marzo 1793, operato ai danni dei repubblicani dagli insorti vandeani. La sua esposizione, secondo l’A., è comunque un passaggio obbligato per una migliore definizione di una memoria collettiva che sorregga la costruzione della nazione, senza dover per questo necessariamente sopire le polemiche e l’antagonismo delle identità. Un processo impossibile in Italia, dove inquisitori e inquisiti vanno a braccetto e dove la recente celebrazione del 150° del Risorgimento ha ricomposto in un unico acritico pantheon della memoria gesuiti e Mazzini, Cavour e Garibaldi, eliminando completamente la chiave di comprensione del conflitto. Più corretto l’approccio di Martin secondo cui la storia non si inventa, come nel caso di Valmy, o della guerra di Vandea, che va inserita a suo giudizio nel più ampio processo rivoluzionario, non rimossa o magnificata.
Il discorso di Martin si precisa parlando di Terrore, che a parere dello storico va ridimensionato nel suo significato fenomenologico senza essere assunto come categoria politica immodificabile e ricondotto all’irriducibile umanità dei suoi protagonisti: non più un Terrore-attore del processo storico quindi, ma un Terrore-agito, che per essere compreso va inserito nell’esplosione di violenza straordinaria che ogni processo rivoluzionario comporta. Se questa risignificazione appare convincente, e certo da preferire alla banale mise en abîme di Robespierre, forse lo è meno la comparazione con il terrore vandeano, che finisce col rendere la specificità politica del gruppo robespierrista troppo evanescente, o troppo politica la violenza vandeana, se si vuole. Molto efficace è invece l’uso della categoria di violenza rivoluzionaria attraverso la quale Martin definisce la paradossalità della Rivoluzione, che se da un lato riformula l’equilibrio sociale di antico regime tracciando l’universalità della norma, con una piena consapevolezza degli attori in gioco, dall’altro concede spazi di eccezione al rito della violenza anomica di antico regime. Sulla forza dell’accoglimento di questo paradosso, Martin traccia un magistrale bilancio storiografico della Rivoluzione, evidenziando come la ricerca storica e l’intreccio con la violenza si inscrivano nelle vicende politiche della storia di Francia. La piena comprensione dei meccanismi politici, sociali ed economici della Rivoluzione e della violenza che si scatena sono il perno intorno a cui Martin avvolge il nastro delle diverse, contrastanti, interpretazioni storiografiche in cui a fare da agente di contrasto è stata troppo spesso l’ideologia più che la realtà.
Allo stesso modo, Martin si sofferma su due aspetti capaci di apportare significative novità alla storiografia e troppo spesso tralasciati o ridotti a caricatura: la partecipazione femminile alle vicende rivoluzionarie e la condizione di anormalità. Se in quest’ultimo caso è esplicito il riferimento a Foucault e alle suggestioni che la sua proposta filosofica ha donato alla critica storica, nella vicenda del protagonismo femminile qualche parola va detta. Martin non è nuovo a considerazioni che coinvolgano nel processo rivoluzionario le donne. Questa volta, sgombrando il campo dagli stereotipi sulla natura femminina, Martin indaga il ruolo delle femmes-soldats della Rivoluzione e dell’Impero napoleonico: sottoposte a violenze e brutalità sia da parte dei rivoluzionari che dei vandeani, le donne seppero comunque ritagliarsi una specificità militante nonostante più volte la componente maschile provò a ridurre la loro autonomia e agibilità politica. Molto interessante è lo studio dei numerosi casi di travestitismo a cui le donne ricorsero per fuggire il ruolo di cura che malgrado la volontà di rigenerazione gli uomini continuavano a assegnargli. Il contenimento della loro indipendenza sembra essere stato, annota Martin, la preoccupazione costante dei maschi; per la maggior parte di loro, la “quasi totalità”, la Rivoluzione non doveva allontanarsi troppo dalla tradizionale divisione di sesso e la professionalizzazione dell’esercito venne perseguita anche come imposizione di una progressiva virilizzazione, secondo un modello che ancora oggi gode di grande fortuna. E tuttavia è impossibile non rilevare come anche nella prospettiva di genere, malgrado il dilemma della cittadinanza che il processo rivoluzionario non riuscì a sciogliere, la Rivoluzione costituisce una netta rottura del paradigma dominante dell’universale neutro, aprendo spazi di riflessione al protagonismo femminile. Un rivolo, l’ennesima storia della Rivoluzione che ancora ci invita a rileggerla.