di Luigi Mascilli Migliorini
Hombre loco desatinado: un pazzo scatenato viene descritto Masaniello nelle lettere che, nel luglio del 1647, devono raccontare al governo di Madrid quello che sta accadendo a Napoli. Dieci giorni, non di più, durante i quali il figlio, secondo la tradizione, di un pescivendolo, Francesco D’Amalfi, o, più probabilmente, di un solachianelle, di un calzolaio e di una – questo è certo – prostituta, riesce a sollevare l’intera città, la seconda per importanza del grande Impero di Spagna e a mettere in forse l’autorità del Viceré. Quello stesso Viceré che, dopo essere stato costretto ad accogliere le richieste di una folla che Masaniello guida all’assalto del suo palazzo chiedendo pane e reclamando l’abolizione della gabella, l’ennesima, sulla frutta, se lo vede ricomparire, una settimana più tardi, quando la rivolta va scemando, alle dieci di sera «a piedi, tutto stracciato – dicono le cronache – con una calzetta posta e l’altra no, senza collare, cappello e spada, correndo come un infuriato».
Follia simulata, strumentalizzata, figlia autentica di una ubriacatura di potere, di un peso insopportabile della responsabilità assunta? Una verità emerge con difficoltà dalla pur ricchissima storiografia su quei dieci giorni, lasciando, tuttavia, emergere un’altra, stimolante e complessa verità: la follia di Masaniello, autentica o presunta, rimane nel corso del tempo, nel corso dei secoli, la chiave di narrazione e di spiegazione di quella rivolta, che pure ebbe ragioni economiche e politiche profonde, che non fu solo rivolta di plebe ma anche rivoluzione di ceti borghesi stretti dal fiscalismo spagnolo, che fu, dunque, intreccio di rapporti sociali e di contesti internazionali tutt’altro che facile da districare. Quasi che la follia sia il segno che meglio si adatta, o che meglio la città adatta a se stessa quando deve presentarsi ribelle, generosa nell’insofferenza e incostante nella indignazione.
Da questa singolare condizione, che nel breve spazio di una rivolta durata pochi giorni sostituisce uno spazio iconico lungo più di tre secoli, prende le mosse Aurelio Musi, nel volume Masaniello. Il masaniellismo e la degradazione del mito (edito da Rubbettino nella collana “dritto/rovescio”, diretta da Eugenio Di Rienzo). E Musi tra i maggiori storici, sulle tracce del suo maestro Giuseppe Galasso, dell’Italia e della Napoli spagnole, lo fa per ricostruire il formarsi non tanto, quasi banalmente, di un mito, ma di una vera e propria – si potrebbe dire – categoria politica, il “masaniellismo”, della quale è forse difficile ritrovare i segni nelle vicende che la generarono, ma della quale è assolutamente evidente l’inattesa presenza nei nostri giorni. Non basta, in questo senso, ricordare un passo dei Miserabili nel quale Victor Hugo tenta un paragone tra Masaniello e Spartaco che lascia al primo la follia solitaria della sconfitta e al secondo riconosce, invece, «l’accesso di furore della verità» che genera il nuovo diritto di chi è schiavo.
Nel Masaniello “Che Guevara napoletano” (così circola la sua immagine oggi nel web, con non minore entusiasmo delle fortune cinematografiche più recenti di Spartaco) l’epopea di quelle lontane giornate del luglio 1647 ritrovano l’energia figurativa di una rivolta popolare alla quale la sconfitta – come accade per il Che morto in Bolivia – aggiunge la forza intatta di una causa che sopravvive perché eternamente giusta ma eternamente disattesa. La storia del “masaniellismo” non si arresta, dunque, ad una sia pur autorevole liquidazione ottocentesca, ma – come racconta Musi – corre lungo tutto il Novecento e si avvita nei contraddittori immaginari di questo secolo controverso. Cosa avvicina l’uso della figura di Masaniello fatta da Achille Lauro, il sindaco monarchico della Napoli degli anni Cinquanta che alla sua Società cinematografica affida nel 1958 la realizzazione di un film la cui sceneggiatura è scritta da Giuseppe Marotta e da Ennio Flaiano e il cui interprete principale avrebbe dovuto essere Paul Newman, agli entusiasmi che accompagnano l’ascesa di un “viceré” di popolo come appare quarant’anni dopo l’avvio del governo cittadino di Antonio Bassolino?
Quale tratto unisce la stravagante avventura di “Agostino o’ pazzo”, il giovanotto che sulla sua moto che scorribanda a piena velocità per i vicoli di Napoli fa impazzire nell’estate del 1970 oltre settecento poliziotti e carabinieri e infiamma di entusiasmo migliaia di persone in quelle che, tra il 23 e il 27 agosto vengono salutate dalla stampa come «le quattro nottate di Napoli», al consenso che dal 2011 sorregge il governo municipale di Luigi De Magistris, non avaro certo di convinte manifestazioni di orgogliosa autosufficienza napoletana?
Populismo, sarebbe oggi la parola che verrebbe da far subito, per trovare il collante tra tante cose diverse nel tempo, nelle situazioni e negli attori. Musi ci spiega, però, che per quanto attraente, questa sarebbe una risposta semplicistica, poco aderente alla complessità di ciò che si liquida sbrigativamente come “populismo” e poco aderente, soprattutto, alla originale configurazione del “masaniellismo”. Come incerta è la follia di Masaniello nei giorni della rivolta che egli guida, così incerto è nel “masaniellismo” il confine tra pazzia e saggezza Si può anzi dire su questa ambiguità la costruzione di una categoria apparentemente legata a una identità cittadina, prende tutto un altro senso e un altro respiro. «Jé so’ pazz’», canta, infatti, Pino Daniele, ultimissimo Masaniello nella galleria raccontata da Aurelio Musi. Indimenticato pazzo-savio che si china sui dolori della città e del mondo, e pazzi, si proclamano ancora oggi con lui, ammalati contenti della stessa saggezza-follia, tutti coloro che continuano ad ascoltarlo e riempire le piazze dove si suona la sua musica.
(Pubblicato il 3 novembre 2019 © «Il Sole24ore»)