di Giovanni Belardelli
Il ministro Francesco Profumo ha da poco nominato il comitato nazionale dei garanti per la ricerca, che si dovrà occupare della valutazione dei progetti elaborati nell’ambito della comunità scientifica italiana. Ma non mi pare che nessuno abbia notato la stranezza, non saprei come altro definirla, di aver incluso tra i sette componenti il comitato (e come unico rappresentante per le discipline umanistiche) il greco Angelos Chaniotis, professore di Storia antica a Princeton.
Si tratta certamente di uno studioso di prestigio; ma è impossibile non chiedersi se era davvero indispensabile che in un Paese come il nostro, che ha una tradizione di studi storici (e di studi classici) certamente di rilievo, si dovesse scegliere un docente straniero. Mi pare insomma difficile non vedere in una scelta simile l’ennesimo sintomo di quell’esterofilia che si va ormai affermando ai vertici del ministero dell’Università, del resto in piena continuità con le scelte del predecessore dell’attuale ministro. Ricordo come solo un anno fa la riforma Gelmini stabilisse, quale primo passo per diventare professore associato o ordinario, la necessità di ottenere un’idoneità da parte di una commissione formata da cinque docenti, uno dei quali obbligatoriamente proveniente da un Paese dell’Ocse. In questo caso, la presenza di quello che si configura come una sorta di osservatore internazionale indica quale considerazione il ministero, e forse il Paese, ormai abbiano del comportamento dei professori universitari, considerati in buona sostanza degli imbroglioni matricolati.
L’esterofilia dei responsabili dell’università assume soprattutto le forme di una anglofilia (o anglomania), come testimoniano due fenomeni sui quali il «Corriere» ha ospitato di recente vari interventi: l’assoluta predominanza che nel sistema di valutazione della ricerca universitaria hanno le pubblicazioni in inglese e la tendenza, nell’insegnamento universitario, a dismettere la lingua italiana per utilizzare invece la lingua inglese. In quest’ultimo caso il punto non è che si utilizzi, anche per interi corsi universitari, l’inglese (come ha annunciato di voler fare il Politecnico di Milano per i corsi magistrali e dottorali a partire dal 2014). Il punto, quello che testimonia di uno sconcertante provincialismo (che è poi, più o meno sempre, l’altra faccia dell’esterofilia), è che questa debba essere – come ha lasciato intendere il ministro Profumo – la direzione verso cui l’intera università italiana, in tutte le sue branche, dovrà evolvere.
Si è detto e scritto mille volte che in Italia si conoscono poco le lingue straniere, che spesso e volentieri usiamo l’inglese male e a sproposito (come nel mostruoso neologismo ticketeria, utilizzato dalla Galleria Borghese di Roma per designare la biglietteria), che troppo pochi sono gli studenti stranieri che frequentano i nostri atenei e così via. Ma dietro il provincialismo anglofilo che vorrebbe reagire a tutto ciò trasformando le nostre università in curiosi ibridi, impensabili in altri Paesi di antica tradizione e cultura, fa capolino una confusione fondamentale. Si tratta della confusione tra l’inglese come indispensabile veicolo di comunicazione (e dunque anche come lingua di insegnamento quando lo si valuti opportuno) e la tendenziale eliminazione dell’italiano come lingua dell’istruzione superiore e della ricerca.
Certo che bisogna utilizzare (e, per la verità, bisognerebbe fare in modo che avvenisse dalle elementari in su) sempre più anche l’inglese. Ma questo potrà ragionevolmente avvenire soprattutto negli ambiti di insegnamento a più evidente contenuto tecnico, che del resto da tempo impiegano l’inglese come strumento di comunicazione. Chi invece sogna un futuro prossimo in cui l’università italiana parlerà in inglese dimentica – come ha osservato il linguista Luca Serianni – la connessione che esiste tra la propria lingua madre e la struttura logico-argomentativa che presiede alla costruzione di ogni discorso o ragionamento. Dimentica dunque come la scelta di un modello di università italiana in cui si parlasse unicamente o prevalentemente in inglese avrebbe quale conseguenza di renderci tutti più apparentemente moderni e up to date, ma anche – ahinoi – meno culturalmente originali e (forse) meno intellettualmente capaci.
(Pubblicato il 1 giugno 2012 – © «Corriere della Sera»)