di Eugenio Di Rienzo
Guido de Ruggiero osservò che nell’economia generale del movimento politico europeo, il liberalismo italiano ha un’importanza modesta, essendo un semplice riflesso di dottrine e d’indirizzi stranieri. A rendere scarsa l’originalità e l’intimo vigore del movimento liberale italiano avevano contribuito questi fattori: il frazionamento politico che ha impedì la formazione di grandi correnti di opinione pubblica; lo spirito della Controriforma che compresse il sentimento individualistico di cui si alimenta il liberalismo moderno; le arretrate condizioni dell’economia italiana che ritardarono la formazione di un largo ceto medio.
De Ruggiero aveva elaborato per la prima volta questo giudizio in alcuni articoli apparsi sulla «Rivoluzione liberale» di Gobetti tra 1922 e 1924. In quegli interventi, veniva espresso aperto consenso al progetto di «democrazia dei ceti medi» di Amendola, per il suo tentativo di rompere la camicia di forza del vecchio Stato oligarchico e di fornire un’ampia base democratica alla rinascita del liberalismo. Così come stava accadendo in Inghilterra grazie alla creazione di un’inedita alleanza liberal-laburista. Così come non era accaduto invece in Italia, dove il partito liberale scontava drammaticamente il vizio d’origine che ne aveva segnato la fisionomia a partire dalle lotte del Risorgimento, trovandosi «stretto, da una parte, tra le forze conservatrici e reazionarie (diversamente ma non meno delle antiche) e dall’altra le forze popolari straripanti». Una situazione di stallo, questa, che si era ampiamente riverberata nella «filosofia politica della Destra storica», nella quale molti trovavano, oggi, il pretesto per giustificare l’appoggio al movimento fascista. E forse, a buon motivo, aggiungeva de Ruggiero, perché «la dottrina di Bertrando Spaventa e dei suoi scolari, col dedurre l’autorità dalla libertà (celando troppo spesso alla vista dei profani l’alma parens), col concentrare nello Stato tutta la forza spirituale ed etica della nazione» fu «in rapporto al liberalismo, la prima e radicale negazione».
Le gravi conseguenze di questa chiusura si palesarono nell’insufficiente, reazione liberale di fronte al fascismo che venne reputato da molti legittimi eredi della tradizione risorgimentale (compreso lo stesso Croce, almeno fino al 1925) un’adeguata risposta alla situazione di endemica anarchia sociale, di ribellismo e di sovversivismo iniziata subito dopo la fine delle ostilità. Nel 1923, infatti, Gaetano Mosca avrebbe giustificato la presa di potere di Mussolini, considerando, come utile rimedio al disfacimento del vecchio Stato liberale, «un breve periodo durante il quale un governo forte e onesto eserciti molti poteri ed abbia molta autorità», al fine di preparare quelle condizioni che potevano rendere il ritorno al «normale funzionamento del sistema rappresentativo», così come era accaduto a Roma «nei migliori tempi della Repubblica, quando qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura».
In questo tornante cruciale della storia italiana, il liberalismo italiano, si è detto, perse così la sua partita, proprio per la costituzionale incapacità dei suoi ceti dirigenti di attuare un rinnovamento in direzione nazionale e popolare della loro filosofia di riferimento e di trasformarla in un vigoroso «estremismo di centro» A proposito di quest’accecamento politico, la primogenita di Croce, Elena, avrebbe coniato nel dopoguerra il termine di «snobismo liberale» in suo omonimo pamphlet, intendendo con quell’espressione la tendenza di una parte di quel movimento politico a prediligere «l’aria chiusa delle serre borghesi» pur di distogliere lo sguardo dal sorgere della società di massa che si levava davanti ai suoi occhi «come un grattacielo».
A questa sottovalutazione ingenerosa del ruolo liberalismo pongono ora rimedio i volumi curati da Orsini, Nicolosi, Berti, Capozzi, Craveri che oggi presentiamo. Di fronte ai risultati di questo ricchissimo contributo mi pare difficile poter parlare di un’eclissi della teoria e dell’azione liberale iniziata già nella crisi di fine secolo e poi perpetuatasi e aggravata tra fascismo e Repubblica.
I due imponenti tomi, dedicati ai Liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica si aprono, infatti, sul ruolo dell’antifascismo liberale soprattutto nelle istituzioni parlamentari, e in particolare al Senato, con i grandi discorsi di Albertini, Bollati, Sforza, che negli anni seguenti vide come protagonisti Ruffini e Croce. Riguardo alla resistenza liberale, è stata ricostruita la partecipazione non minoritaria alle brigate partigiane, mettendo, inoltre, in rilievo il ruolo dei militanti liberali nell’assicurare la logistica e mantenere i rapporti tra Alleati e governo italiano. Sono state ricordate, anche, le personalità che ebbero maggior peso in questa funzione: Pizzoni, presidente del Comitato Liberazione Alta Italia; il generale Cadorna, capo militare della Resistenza, Edgardo Sogno e Giustino Arpesani. Si è analizzato, poi, il ruolo del ricostituito Esercito italiano, forte di circa 500.000 unità, sotto la guida del liberale, Alessandro Casati, ministro della Guerra.
Né è stato dimenticato il ruolo di Merzagora che fu presidente del comitato economico del Cnl. Fu, infatti, Merzagora a coordinare quel gruppo d’industriali il cui sostegno economico, soprattutto nell’area lombarda, rese possibile alla resistenza di assicurarsi un flusso ininterrotto di armi e vettovagliamento, anche nei periodi in cui rifornimenti degli Alleati vennero provvisoriamente meno. Non è stato tralasciato, infine, il martirologio dei caduti liberali durante la guerra di liberazione dai più noti, come Eugenio Artom, Giovannini, il filosofo Franchini, ai tanti resistenti meno noti, morti in questo secondo Risorgimento, e fino ad oggi pressoché dimenticati.
Altri saggi hanno investito il tema dell’ordine pubblico e della volenza politica nella guerra civile degli anni 1943-1947, introducendo nuovi temi rispetto a quelli presi in considerazione dalla vulgata della sinistra storiografica e non toccati neanche nei volumi di Pansa, ai quali è stato, comunque, riconosciuta la serietà dell’impianto scientifico. Rispetto all’autore del Sangue dei vinti, sono stati individuati altri aspetti. Il fatto, cioè, che, oltre alle stragi nei riguardi dei fascisti, vi fu, prima e dopo la liberazione, una vera e propria guerra sociale che si sovrappose e spesso si sostituì a quella per la riconquista dell’indipendenza nazionale.
Nel diario politico degli anni 1944-1945 Giulio Andreotti sottolineava, infatti, che la direzione politica, affidata ai rappresentanti dei Comitati di liberazione, costituiva «un pericolo grave per la rinascita democratica e un mezzo che può essere sfruttato per tentativi rivoluzionari», perché i «partiti d’ordine» si trovavano in una posizione di netto svantaggio nei confronti delle forze politiche estremiste che «non rifuggono dall’assolvere contemporaneamente i connotati di governanti e di oppositori». Fallito il tentativo del Pci di utilizzare l’epurazione antifascista per «distruggere integralmente la pubblica amministrazione, perseguendo così una delle mete rivoluzionarie», il partito di Togliatti affidava il successo dell’iniziativa politica anche alle «squadre armate» e al «piombo dei fucili», scatenando una «violenta opera di giustizia popolare», che, in tutti i territori liberati dall’avanzata degli eserciti alleati, si proponeva di eliminare fisicamente i quadri politici, economici, intellettuali dello schieramento moderato e soprattutto liberale.
Dopo il 25 aprile, non si verificò, quindi, soltanto una spietata «caccia al fascista», ma anche un tentativo di sistematico annientamento di tutti coloro, che si reputava potessero essere d’intralcio alla sovietizzazione del nostro paese. Tentativo intrapreso da gruppi consistenti del mondo partigiano, egemonizzato dal Pci, il quale, per altro, non aveva rinunciato al suo ruolo di partito di governo, pur mantenendo in vita la sua organizzazione di «partito armato». La guerra di sterminio contro il nemico di classe poteva così contare su salde retrovie istituzionali: sulla cooperazione di molte amministrazioni locali social-comuniste, sulla connivenza di questori e prefetti «rossi», sulla complicità attiva della famigerata «polizia partigiana» che affiancava allora le forze dell’ordine.
In questo contesto, il Centro-Nord fu teatro di un numero incredibile di aggressioni, rapine, estorsioni, sequestri di persona, che colpirono beni e persone della borghesia, classificabili non tanto come episodi di delinquenza comune ma come forme di delinquenza politica organizzata. Sempre nelle regioni settentrionali e fino alla Toscana, si moltiplicarono vendette politiche di ex partigiani contro ufficiali e graduati del Regio esercito, che pure avevano rifiutato di collaborare con il governo della Repubblica sociale italiana, ma anche contro industriali, sacerdoti, proprietari che avevano fiancheggiato le forze della resistenza. La bonifica antiborghese colpiva indistintamente esponenti della Dc, del Partito liberale, del fronte dell’Uomo Qualunque, giornalisti, magistrati, insegnanti, medici e farmacisti agenti della Pubblica sicurezza, Carabinieri.
Anche nel Mezzogiorno la situazione dell’ordine pubblico era drammatica. Ai fenomeni di banditismo sociale si aggiungevano continui episodi di violenza politica che, soprattutto in Calabria e in Puglia, s’intrecciavano con le lotte economiche sostenute dai partiti della sinistra. La stessa capitale non venne risparmiata. Alle funeste gesta della banda del Gobbo del Quarticciolo (una gang reclutata nel sottobosco comunista) faceva riscontro l’assalto a mano armata del Viminale, capitanato dal senatore del Pci, Velio Spano. In buona parte d’Italia, concludeva Benedetto Croce, si replicava lo scenario che aveva accompagnato l’avanzata delle armate comuniste, dalla Polonia all’Istria, e cioè la distruzione di quanto della vecchia classe dirigente nazionale era sopravvissuto all’opera di annientamento del nazismo. Echeggiava questa tesi la testimonianza di un esponente liberale emiliano, il conte Malvezzi, che parlava di un «passaggio senza transizioni dal fascismo nero al fascismo rosso», con «medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazioni, minacce», aggiungendo che, nella città di Bologna, «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiano più notizie».
Una storiografia tendenziosamente innocentista ha accreditato l’impossibilità del vertice comunista di controllare la massa di manovra delle formazione partigiane, ingrossatesi, alla vigilia della liberazione, di molti elementi malavitosi e di reduci di Salò. La nuova interpretazione che emerge dai volumi, qui presi in esame, non liquida del tutto questa ipotesi, ma la ridimensiona decisamente, dimostrando come a livello di Comitato centrale e persino di Consiglio dei ministri, il Pci non avesse mai preso chiaramente le distanze dalle sue frange estremiste o deviate. Frange estremiste o deviate che, in ogni caso sarebbero state massicciamente utilizzate per un’opera d’intimidazione violenta contro i partiti democratici, alla vigilia delle elezioni politiche e amministrative del 1946-1947.
A quella violenza si pensò di opporre una contro-violenza di carattere difensivo, che avrebbe potuto contare sull’apporto dei partigiani cattolici, liberali, monarchici, nazionalisti delle Brigate Osoppo, primo nucleo di un futuro fronte di resistenza di tutte le forze anticomuniste. L’intera questione sarebbe stata risolta, fortunatamente, a livello politico, quando, dopo la caduta del governo Parri, la Dc avrebbe rotto l’alleanza ciellenistica, per costituire il perno di un blocco di partiti d’ordine. In questa congiuntura fondamentale fu l’impulso dato alla rottura della fittizia unità del fronte antifascista, da parte del gruppo liberale guidato da Cattani, i cui membri si adoperarono poi attivamente, insieme alle altre forze laiche e cattoliche, per normalizzare definitivamente la situazione dell’ordine pubblico. Infine, va evidenziato il ruolo moderatore, svolto dal Pli, che, pur essendo in larga parte monarchico, accettò senza proteste e senza recriminazione il risultato ambiguo, risicato, non esente da sospetti di broglio del referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. Un risultato che, se contestato pubblicamente, avrebbe potuto aprire la strada a un nuovo conflitto civile, in un’Italia ancora per la metà fedele a Casa Savoia.
Rilevantissimo per realizzare la rinascita economica del nostro Paese, fu poi l’opera di dirigenti liberali come Corbino, Merzagora, soprattutto Einaudi. Quest’ultimo, prima come governatore della Banca d’Italia, e poi come super-ministro dell’Economia, fu il principale artefice del decollo italiano del dopoguerra e del nostro reinserimento nel sistema monetario internazionale. Si deve, infatti, alla linea Einaudi, testardamente avversata dalle sinistre, se si avviò il miracolo economico degli anni Cinquanta.
Testo letto, in occasione della presentazione de I liberali italiani dall’antifascismo alla Repubblica, a cura di F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (vol. I) e G. Berti, E. Capozzi, P. Craveri (vol. II), Rubbettino Editore e ISPLI (Istituto Storico per il Pensiero Liberale), 2008-2010.
Biblioteca della Camera, Sala del Refettorio, Roma, Martedì 21 giugno 2011