di Paolo Luca Bernardini
Descrivere, seguendone le tappe principali, il percorso della “solitudine” nella cultura occidentale non è compito semplice. Lo svolge con acribia e attenzione Aurelio Musi in Storia della solitudine (Neri Pozza, 2021): libro che può tra l’altro essere, e certamente lo diventerà, perfetta compagnia per i solitari, appunto, o per coloro che non per scelta, ma per costrizione, vivono in solitudine, più o meno temperata da “compagnie” differenti, assai spesso non umane: animali, macchine, giardini, panorami, di solito.
Come ben s’avvede lo storico, la nostra lingua non ha la diade illuminante, ed estremamente funzionale, propria di quella inglese, ad esempio: «solitude» e «loneliness» esprimono la differenza, fondamentale, tra la solitudine come condizione oggettiva ed “il sentirsi soli”, la solitudine come esperienza esistenziale, con tutte le sfumature situazionali, per dir così, tra le due condizioni/situazioni prese nella loro forma estrema. Quando comportandosi in modo totalitario la più parte dei regimi politici del mondo impone allentamenti più o meno radicali dei rapporti interpersonali – rovesciando significativamente le scelte dei regimi totalitari del passato, che invitavano invece ad adunanze di massa, come Hitler e Mussolini, e non solo loro – naturalmente le scienze umane e sociali sono portate ad interrogarsi sulla solitudine, come condizione esistenziale senz’altro, ma anche come situazione emergenziale, imposta, suggerita, e in modi diversi, dalla tragedia all’ironica accettazione, vissuta. Per tanti aspetti, «Grenzsituation», per dirla con Jaspers, cui si deve il conio, poi entrato nel linguaggio comune.
Dunque non solo un decano tra gli storici italiani qual è Musi, ma anche – ad esempio – due storici inglesi di generazioni diverse, David Vincent, della generazione di Musi, e la giovane Fay Bound Alberti, autori rispettivamente di A History of Solitude (Polity, 2020) e di A Biography of Loneliness (Oxford Univ. Press, 2020) si sono felicemente cimentati – concentrandosi sul mondo anglosassone, ma con significative escursioni altrove – nell’aspro ma fertile territorio degli studi storici sulla solitudine. E, per parafrasare Octavio Paz, trattare della solitudine è muoversi in un vero e proprio labirinto, tra significati e prospettive differenti.
Manca ancora – a quanto ne so – una “global history” della solitudine, che analizzi la diade, solitudine oggettiva e solitudine esistenziale, solitudine scelta e imposta, per dir così, dal punto di vista universale. Il percorso prescelto da Musi è molto lineare, dal mondo greco a quello latino, salendo fino al Medioevo, al Rinascimento e al Barocco, per giungere, dall’Illuminismo, alla riflessione della filosofia contemporanea, con particolare attenzione al mondo della Teoria Critica, ovvero del marxismo sofisticato e talora nichilistico dei Francofortesi. La complessa dialettica – per usare un concetto che proviene da tale armamentario ideologico – tra il modo in cui la solitudine è concepita, vissuta e percepita – e soprattutto socialmente e ideologicamente giudicata – è ampiamente illustrata, e sviscerata nelle sue complesse dinamiche, a partire dal mondo greco. Era un mondo, peraltro, in relazione profonda con quello cristiano, a partire dall’anacoretismo, della figura per eccellenza del solitario per scelta, l’anacoreta appunto, colui che si “ritira”, giusto l’etimologia (e l’attenzione per le etimologie giuoca un ruolo fondamentale per Musi, e in questo contesto in generale). La questione fondamentale della “vita solitaria”, alla Petrarca, per scelta — logicamente e storicamente di continuo stigmatizzata, e non solo nella cultura occidentale, in quanto la solitudine oggettiva, individualistica, porta alla sterilità e all’esaurimento della specie, e dunque deve comunque rivestire un carattere di eccezionalità – viene ampiamente trattata qui, e la riflessione è di conseguenza invitata ad allargare ulteriormente la prospettiva.
Le fonti sono inesauribili, la solitudine è oggetto di continue riflessioni nella storia della civiltà occidentale, e non solo ovviamente in quella. Il mondo dei solitari per scelta, degli anacoreti ed eremiti, gimnosofisti, solitari per vocazione – persi in una “vita contemplativa” ampiamente tematizzata nella sua contrapposizione con quella “activa” — raggiunge la sua secolarizzazione in età romantica. Le opere (ad esempio) di un Kaspar David Friedrich sono un grido acuto contro quel culto della “socialità” che non poteva essere che la cifra del Settecento: l’osservatore solitario delle vette alpine (così in alto da osservarle perfino coperte da nuvole) raggiunte singolarmente col solo aiuto di un bastone da passeggio, del tutto insufficiente per scalare anche allora, il celebre “Viandante sul mare di nebbia”, è risposta alla tematizzazione scientifica della socialità del secolo in Friedrich nacque. Si pensi solo all’opera di von Knigge del 1788 – Vom Umgang mit Menschen – trattato sociologico che fissava non solo la necessità, ma tutti i modi le forme e le basi morali della società di antico regime; un testo pubblicato anche in italiano nel 1816, e che mentre Friedrich dipingeva il suo capolavoro, rischiò perfino di essere messo all’Indice. La Chiesa vedeva in Knigge a ragione un rappresentante di un illuminismo per quanto non radicale, pericolosamente oscillante verso l’assolutizzazione della “societas” umana a discapito di un universo ripieno del Divino, di cui la società umana non è che una parte, assai difettosa. Da segnalare che il secondo capitolo della prima parte, quella introduttiva, inseriva in questo contesto di esaltazione della socialità, anche le norme con cui l’individuo – sdoppiandosi, considerando se stesso come un interlocutore, estraniandosi dunque da se – doveva rapportarsi a se stesso: “Über den Umgang mit sich selbst”, appunto.
Ma intanto il Romanticismo spezzava violentemente le catene sociali: e nello stesso 1818 del terebrante dipinto di Friedrich vedeva la luce Frankenstein, dove la folle solitudine dello scienziato che sfida le leggi della natura si accompagna all’oggettiva solitudine della “creatura” sortita malamente da questa improvvida tenzone: due forme di solitudine, entrambe destinate alla disperazione e alla morte, entrambe in qualche modo sterili. Non solo, ma nel giuoco delle date e coincidenze, occorre ricordare come l’anno dopo, nel 1819, Schopenhauer dia alle stampe il suo Mondo come volontà e rappresentazione, in cui, pur non citando lo stato del solitario, si prelude ad una dissoluzione della società come prospettiva per fermare il corso distruttivo del mondo, della “volontà” che ci trascina.
Certamente, se tutti scegliessimo la solitudine, il mondo si esaurirebbe, e questo era ben chiaro alla dottrina cristiana, la quale certamente non poteva non raccomandare la solitudine monacale – scelta più spesso imposta socialmente che non liberamente presa – ma allo stesso doveva propagandare il rigore morale della vita monacale, come modello anche per la morale delle spose, delle madri, delle figlie. Ed infatti Musi cita un testo, La religiosa in solitudine, del gesuita Pietro Pinamonti, un volume del 1695, ove questa raccomandazione, fatta derivare direttamente dal Loyola, è esplicita, per salvare la capra della solitudine religiosa e i cavoli della famiglia e della continuazione della specie. Un libro che occorre dire si dovrebbe studiare nell’immensa fortuna che ebbe – diecine e diecine di edizioni – fino a tutto l’Ottocento: il solitario per scelta, nel contesto cattolico, è avanguardia morale nei suoi comportamenti, ma non necessariamente figura da imitare indiscriminatamente e sistematicamente per la sua condizione. Un abile stratagemma del tardo barocco.
La solitudine dunque è soggetto affascinante, tanto quanto ambivalente, nella sua fluidità. Soli per sempre, soli nell’universo, soli tra gli altri, soli perché in compagnia, soli occasionalmente? La solitudine “occasionale”, il ritiro temporaneo, è da sempre l’alternativa accettata e moderata, esaltata anche e proprio nel Settecento, secolo della “sociabilitas” quasi forzata, dell’attacco agli eremiti e anacoreti, e alla vita conventuale, ove si consumano eccessi sessuali, peraltro, tra monache e monaci (che dunque così “soli” proprio non sono). I Piaceri della solitudine canta Domenico Colombo, nel 1781, I Frutti della solitudine canta, decantandoli, Antonio Volpi nel 1741, mentre Edward Young e il suo Savio in solitudine è tradotto nel 1783, e il ponderoso e indigesto Zimmermann nel 1788; Jean Pey, imitatore di Young al limite del plagio, col Le sage in solitude, è tradotto anch’esso nel 1792 (sarà ripubblicato ancora nel 1844 col titolo L’uomo saggio in raccoglimento).
Un volume così ricco di erudizione qual quello di Musi – non meno delle opere dei due storici inglesi citati prima – invita naturalmente anche a suggerire integrazioni. Se tanto spazio è dedicato – giustamente – all’Ortensio Lando che pubblica nel 1552 il Ragionamento di un cavaliere errante e di un uomo solitario, elogio dell’ideale, e pericolosa «fusione tra solitudine monastica e solitudine umanistica» (p. 74), forse si sarebbe dovuto parlare anche dell’ebreo errante, figura mitica di solitario per eccellenza, non per scelta, ma per condanna divina, destinato a muoversi perpetuamente, e non morire mai.
Come stato di eccezione, sia nel contesto umano, sia nella vita dei singoli, la solitudine, se diviene in qualche modo “regola”, spezzando con le catene sociali anche la continuità della specie, non può essere vista che in modo estremo. La esalta chi non si cura della propria specie e dunque rinnega sé stesso. E il poeta ellenistico Pallada, attivo ad Alessandria nella seconda metà del IV sec. d.C., canzona i monaci e gli eremiti, celando sotto il velo della poesia la loro stigmatizzazione sociale, che ci restituisce un’isola “squallida” per abbondanza di uomini che “rifuggono la luce”, e che vivono da soli, ma solo in apparenza, sono paradossalmente una moltitudine di solitari, per non avere “nessun testimone”. E qui si tocca il punto dolente della solitudine: senza aver nessuno che ci guarda, manterremo una vita morale? A chi possiamo nuocere se siamo soli, se non a noi stessi? Quali peccati compiono coloro che sono interamente, totalmente soli?
Lo spiegherà perfettamente Zimmermann; mentre peraltro nella terra dei solitari arrampicatori di vette sublimi, la Svizzera, già ampiamente in età illuministica, il medico Tissot col suo L’onanisme et l’Avis au peuple sur sa santé, del 1761 – l’anno stesso della Novella Eloisa di Rousseau, e un anno prima dell’Emilio: opere ove la dialettica solitudine-società assume sfumature epocali, riproducendosi, tra l’altro, in quella tra città e campagna, e scuola e formazione spontanea e individuale – aveva messo in guardia dalle “pratiche solitarie”, ancorché non necessariamente legate alla solitudine: trasformando anzi, come non sempre si sottolinea, il suo attacco agli effetti devastanti della masturbazione ad un attacco generale a tutte gli eccessi sessuali, compresi quelli in compagnia.
Monaci, ebrei e cavalieri erranti, “uomini selvatici”, anacoreti, nomadi, figure dell’anti-socialità, banditi solitari come lupi, che la filosofia della società per eccellenza, il socialismo doveva stigmatizzare, perfino esaltando Prometeo non per la condizione in cui si trova, ma per quel gesto eroico che lo aveva portato a tale condizione, e che invece giova immensamente alla crescita e moltiplicazione degli uomini: come Marx inizia a fare, seguito da gran parte del secolo suo. La solitudine come nichilismo assoluto – che se non porta al suicidio, tema cui fa spesso riferimento Musi – porta conseguentemente all’estinzione della specie, entra di forza nel materialismo agli albori, si pensi solo al Leopardi che trasfigura la propria (triste) persona nel passero solitario, “osservatore” sterile, legato alla sola dimensione intellettuale, e contemplativa della vita, divenendo, appunto, “passero solitario”.
Ma le leggi della natura ci dicono che probabilmente anche il passero si sarà trovato una compagna, e la letteratura italiana vi contrappone idealmente le rondini col Pascoli: «L’albero ha il fiore e la rondine il nido», come dire che se “natura non facit saltus”, ancor meno essa si indirizza mai verso la solitudine (ché dei salti sarebbe, ovviamente, il più mortale). Anzi, la famosa rondine pascoliana caduta «tra spini» ci parla di una natura naturalmente inclinata verso la vita, e di un’umanità che invece uccide, barbaramente, l’uomo che non il cibo portava ai «rondinini», ma «due bambole in dono» — qualcosa di soltanto umano, dei giochi –: trasformando una dimora idealmente felice, in una «casa romita». Appunto, solitaria, malinconica. Triste.
Finalmente, un’ultima notazione in merito a quella forma di solitudine, su cui investigò Norbert Elias. La solitudine del morente del 1982, mostra bene come ai tempi di rimozione della morte, colui che davvero soffre la peggior solitudine è proprio il morente. Non amena conclusione, ma viene quasi naturale in un momento in cui la morte ha conquistato e tiene salda da oltre un anno, dal febbraio 2020, la prima pagina, come si suole dire. Insieme però alla solitudine, che – come ricorda bene la Alberti nel suo libro citato all’inizio – ha sempre una dimensione politica, ma raramente vi è stata una forma di imposizione della solitudine, l’obbligo a dissolvere i legami sociali, come quella che stiamo vivendo ora. Una profonda riformulazione dei legami sociali, che ne impone il trionfo solo nel modello virtuale, nella realtà digitale? Quale terribile verità potremmo portare alla luce semplicemente in una “civil conversazione” tra noi? Andiamo verso l’immersione del mondo in una melanconia senza fine, come i tempi del Covid ci preannunciano?
(Pubblicato il 5 marzo 2021 © «Nazione Futura» – Cultura)