di Luigi Morrone
La collana “Diritto e rovescio” di Rubbettino si arricchisce di un nuovo volume, dedicato alla Conferenza di Pace di Parigi, dal significativo titolo: “Una vittoria mutilata?”, che riprende un articolo di Gabriele D’Annunzio sul Corriere della Sera del 24 ottobre 1918, a guerra non ancora finita (“Vittoria nostra, non sarai mutilata”). Il libro non si propone una ricostruzione organica della Conferenza di Pace, ma si prefigge un’interpretazione organica della “vittoria mutilata” che tenga conto dei vari piani sui quali essa si articolò.
Lo studio esamina, innanzitutto, la posizione dell’Italia liberale nei confronti del Regno Unito, che non fu mai ostile, pur nella Triplice Alleanza, né avrebbe potuto esserlo, attesa la posizione in un mare i cui due sbocchi esterni (Suez e Gibilterra) erano sotto il controllo britannico. La neutralità italiana allo scoppio della Grande Guerra, dunque, poteva avere il solo significato di una posizione favorevole alle forze dell’Intesa. Il patto di Londra, con la fine della Triplice Alleanza e l’entrata in guerra al fianco dell’Intesa, fu, quindi, il naturale sbocco di una politica estera perseguita fin da prima dell’Unità. In apparenza quel patto, con le promesse di riconoscimenti territoriali e diplomatici, soddisfaceva le esigenze italiane di uscire dal suo ruolo di “media potenza a titolo di cortesia” per rientrare in pieno in una veste confacente alla sua tradizione storica ed alla sua posizione geografica, nel cuore di un Mediterraneo che, dopo il taglio di Suez e la colonizzazione europea dell’Africa del Nord, era tornato ad esercitare una decisiva importanza strategica nello scacchiere mondiale.
Proprio il Patto di Londra, tuttavia, diede il pretesto alle forze dell’Intesa di accusare l’Italia di “egoismo”, di avere – cioè – scelto la via dell’intervento non per le finalità di rintuzzare la minaccia che gli Imperi Centrali rappresentavano per un pacifico assetto continentale, ma solo per soddisfare i propri interessi nazionali, accuse che, già poste a base della ritrosia a fornire aiuto all’Italia, durante la guerra (persino nella drammatica fase successiva a Caporetto), si riproposero drammaticamente nella Conferenza di pace. A ciò si aggiungeva il disconoscimento del “peso” italiano sugli esiti della guerra. Nonostante fosse indubbia la portata decisiva dell’avanzata di Diaz verso Vittorio Veneto, le forze dell’Intesa tendevano a minimizzare l’apporto italiano alla vittoria, tendenza che ridonderà anche in campo storiografico, dove solo i recenti approdi hanno condotto a riportare i successi bellici italiani alla loro giusta rilevanza.
In realtà, l’intervento statunitense nel conflitto aveva riportato nelle trattative di pace il pregiudizio antiitaliano strisciante al di là dell’Oceano, pregiudizio ben analizzato da Soave. Per tali preconcetti della “dottrina Wilson”, le aspirazioni italiane ad un’espansione territoriale nell’Adriatico Orientale e ad un’influenza indiretta sulla penisola balcanica erano equiparate alle pretese egemoniche delle potenze sconfitte, pretese che, secondo il leitmotiv delle forze dell’Intesa, erano state il fattore scatenante della Guerra. La “dottrina Wilson” venne esposta nei “Quattordici punti”, che miravano all’autodeterminazione dei popoli su base etno-nazionale ridefinendo le relazioni internazionali in profondità, con la libertà “assoluta” di navigazione; la soppressione delle barriere economiche; il disarmo; la composizione delle questioni coloniali tenendo conto anche dell’interesse delle popolazioni soggette; la cooperazione con l’URSS nel pieno rispetto della sua sovranità e del suo nuovo governo; il ripristino del Belgio quale Stato sovrano e indipendente; la restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia; la rettifica dei confini italiani secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili; l’autonomia per i popoli dell’Austria-Ungheria; l’evacuazione e il ripristino territoriale di Romania, Montenegro e Serbia con uno sbocco al mare per quest’ultima; il riconoscimento della sovranità turca e dell’autonomia per le altre popolazioni dell’ex Impero ottomano, con libero accesso ai Dardanelli; la ricostituzione dello Stato polacco con uno sbocco sul maree, punto culminante, la costituzione della Società delle Nazioni, estesa all’URSS, al fine di affidare ad essa il compito di garantire la pace secondo il concetto, mai prima attuato, di sicurezza collettiva.
In effetti, dopo aver contribuito alla guerra dell’Intesa con ingenti prestiti, aiuti materiali ed infine con l’invio di 2.000.000 uomini, Wilson aveva il prestigio e la forza per imporre a un’Europa esangue e bisognosa la sua proposta di pace come l’unica meritevole di essere perseguita. I “Quattordici punti”, dunque, frustravano le aspirazioni italiane conseguenti al Trattato di Londra, soprattutto riguardo alle mire territoriali sull’Adriatico Orientale e su terre già appartenenti all’Impero Ottomano, all’aspirazione ad un’egemonia diplomatica sui Balcani, ed all’inserimento tra le Potenze Coloniali. A dire il vero, i “Quattordici Punti” suscitarono non poche perplessità in tutte le Cancellerie Europee, stante la “astrattezza” dei principi ispiratori, lontani dalla tradizione della diplomazia continentale, tanto che il primo Ministro francese Georges Clemenceau, sferzante, osservò che, rispetto a Wilson, Dio si era accontentato di dare all’umanità solo dieci comandamenti.
Tuttavia, mentre Regno Unito e Francia potevano trovare un punto d’intesa tra i propri interessi nazionali e la “dottrina Wilson”, non altrettanto poteva dirsi per gli interessi dell’Italia, confliggenti sia con il disegno di riconoscere la sovranità turca sull’Anatolia, sia con l’appeasement nei confronti del nazionalismo slavo. Tra l’altro, le mire italiane sul Dodecanneso e sulla Microasia contrastavano con il rinascente nazionalismo greco, e le rispettive mire su quelle zone del Mediterraneo Centro orientale arrivarono persino al conflitto armato, nel quale Soave riconosce l’astuzia del premier greco Venizelos nell’ottenere una parvenza di protezione delle forze dell’Intesa sulle azioni militari in Anatolia. Ma il nodo fondamentale, che sarà destinato a riverberarsi nelle vicende post belliche, fu proprio quello del confine orientale: la tesi dannunziana (che trovava molto riscontro tra i reduci) della continuità del confine naturale dal Brennero fino a Zara e alla Dalmazia, passando per l’Istria e Fiume, opponeva all’Italia un blocco ostile composto da slavi e alleati, anche per l’estraneità di queste rivendicazioni rispetto al patto di Londra. Le divergenze arrivarono ad un quasi punto di rottura tra gli italiani e gli Alleati, e l’Italia meditò il ritiro della delegazione dalla Conferenza di Pace. Solo l’intervento del Re scongiurò l’ipotesi.
La pesante ipoteca statunitense sulla Conferenza di pace e l’incompatibilità della “dottrina Wilson” con gli interessi italiani, si estrinsecò persino con un appello diretto del Presidente Americano al popolo italiano, pubblicato da un giornale francese. L’indecisione italiana e la tendenza perenne alla mediazione, secondo Soave, minarono la credibilità della delegazione, indebolendone definitivamente la posizione nell’ambito delle trattative. Dopo la caduta del governo Orlando, Sonnino rimase a Parigi quale plenipotenziario e la firma del trattato di Versailles lasciò aperte le questioni italiane, contro le quali, ancora una volta, gli SUA posero una pesante ipoteca, agitando la leva finanziaria dei debiti contratti dall’Italia per finanziare l’industria bellica durante la guerra. La partecipazione dell’Italia alla conferenza di pace enfatizzò – dunque – la distanza dagli alleati già manifestatasi durante la guerra, mentre i nodi irrisolti e la fideistica speranza che l’istituzione della Società delle Nazioni ponesse fine ai casus belli furono le basi sulle quali si costruirono le tensioni del ventennio successivo sfocianti nella Seconda Guerra Mondiale, come intuirono da subito i comandanti alleati Ferdinand Foch e David Lloyd George. Soave individua le cause della debolezza italiana nella Conferenza di pace non solo nella pesante situazione debitoria e nella intrinseca inadeguatezza dei delegati, ma anche nella mancanza di una visione comune tra di essi e nella indecisione dimostrata nel sostenere le proprie tesi.
Si ritorna, dunque, al titolo del libro: il mancato riconoscimento dell’apporto italiano alla vittoria dell’Intesa fu vista come “Vittoria mutilata”, uno dei cavalli di battaglia del Fascismo. Ma Soave non accoglie la tesi di Salvemini, secondo cui fu la debolezza della delegazione italiana a Parigi a preparare l’avvento del Fascismo, ritenendo – viceversa – che fu proprio il Fascismo a creare il Mito della “Vittoria Mutilata”, che fu tale soprattutto nelle percezioni, sul piano morale e psicologico, ancor più che su quello politico-diplomatico. La “Vittoria mutilata” s’inserisce, quindi, nel lungo solco dei complessi rapporti tra Italia ed Alleati, che attraversa i regimi liberali, come il Fascismo e che fu anche uno dei nodi dell’Italia Repubblicana.
(Pubblicato il 10 luglio 2020 © «il Quotidiano del Sud»)