di Franco Cardini
C’è stato in Italia un lungo tempo nel quale non solo «non si poteva dir male di Garibaldi», ma nemmeno di Benedetto Croce. È vero che uno spiritaccio irriverente come l’allora ventiseienne Umberto Eco, nella sua irresistibile Storia della filosofia in versi del 1958 poteva parafrasare l’ormai proverbiale “donzelletta” di Giacomo Leopardi presentandoci quel suo “Don Benedetto vien dalla Campania – in sul calar del sole, e reca in mano – le quattro forme sole” (estetica, logia, economia, etica): il che, nell’eruditissimo goliardismo di quel diabolico ragazzaccio di Alessandria avviato a diventare maître à penser di qualunque (vero o falso) anticonformismo, finiva per irridere sia al crocianesimo polemico, strumentale e cripto-antifascista che aveva fatto del filosofo di Pescasseroli naturalizzato napoletano, vissuto soprattutto romano e morto sorrentino, una bandiera per chiunque, fra 1925 e 1945, volesse manifestare in modo tutto sommato poco rischioso la sua opposizione al regime che aveva fatto dell’amico-avversario di Croce, Giovanni Gentile, il suo filosofo, sia a quello largamente passatista e conformista, ma anche orientato in senso liberale e anticomunista, dei tanti che su Poesia e non Poesia e su La storia come pensiero e come azione erano pronti a giurare dissimulando così – in tempi come quelli che Galli della Loggia ha ricordato come tipici della «dittatura culturale» della sinistra in genere (ma del PCI e della sua segreteria in particolare) – il loro disagio dinanzi all’egemonia comunista e al rigoroso asse gramsciano-togliattiano che allora la rappresentava nella vita culturale del Paese. Di tutto questo ne sa qualcosa chi come me, studente liceale alla fine degli Anni Cinquanta e quindi universitario nei primi Anni Sessanta in quella Firenze che nell’anteguerra era stata la “capitale morale” sia del gentilianesimo sia del suo pur ostile “fascismo di sinistra”, si trovò prima a doversi poco agevolmente confrontare con professori di liceo tutti allineati e coperti dietro alla scolastica e alla mistica crociane, quindi con professori universitari tutti ex-gentiliani (e qualcuno ex-fascista) passati al comunismo gramsciano-togliattiano e quindi ferocemente avversi comunque alla memoria del filosofo fino a pochi anni prima improbabile.
Ecco. La grottesca Italian story di un letterato che più volte in vita sua aveva sottolineato – sia pur in termini differenti da quelli di Nietzsche o di Thomas Mann – la sua «impoliticità» e la sua «inattualità», e che nei mesi tumultuosi del passaggio dalla monarchia dell’infausto Vittorio Emanuele III alla luogotenenza del semimpresentabile Umberto II alla repubblica era andato sottolineando contro ostinati ammiratori e pervicaci detrattori quanto inadatto sarebbe stato a ricoprire alte cariche pubbliche pur di continuo offertegli. La storia semiseria e semitragica di un “nume tutelare” regolarmente usato, nell’arco di circa un trentennio, come alibi politico da quanti non avevano il coraggio di rischiare affiancandosi lealmente, a viso aperto, sulle sue posizioni.
Ch’erano poi alquanto più articolate e criticamente “scomode” di quanto non sembrasse e non si dicesse: e se non sembrava, se non lo si diceva, non era certo colpa sua. In un suo lucido e svelto ma documentatissimo saggio, Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino, pagine 178, euro 14,00), Eugenio Di Rienzo ha ricostruito un lustro tumultuoso e difficile nel quale il vecchio pensatore ormai circa ottantenne e non più saldo in salute, dal suo buen retiro sorrentino di Villa Tritone e dalle sempre meno frequenti visite alla capitale dovette affrontare i difficili anni della fine della guerra e dell’immediato dopoguerra. Eugenio Di Rienzo, cattedratico della Sapienza di Roma e direttore della “Nuova Rivista Storica”, è autore instancabile che negli ultimi tempi si è volto con successo alla geopolitica e alla storia eurasiatica, con lavori sulla Russia e sull’Afghanistan, mentre nel 2018 è riuscito a concludere la sua monumentale ricerca su Ciano. Vita pubblica e privata del “genero di regime” nell’Italia del Ventennio nero edito dalla Salerno. Un lavoro duro, durato anni, che si presenta più come una storia documentata della diplomazia italiana tra Anni Trenta e Anni Quaranta che non come una biografia “classica”: e dal quale esce un ritratto rigoroso, a tratti impietoso per quanto scritto con humour, e privo sempre di tentazioni conformistiche. Al punto tale che più volte e per più versi l’indifendibile suocero finisce con uscirne meglio, con maggior lungimiranza e dignità, del genero brillante e troppo spesso semidifeso dalla critica (anche a causa del suo voto quella notte del 25 luglio e poi della sua morte chissà se davvero non commisurabile alle sue colpe, ch’erano diverse dall’aver votato contro al Duce ma che pur c’erano).
In questo libro su Benedetto Croce, non ci si limita a ribadire l’arguzia, la lucidità e spesso il coraggio delle posizioni di don Benedetto: ma si reagisce con esplicita energia a un luogo comune forse ormai passato definitivamente nel novero di quegli argomenti dei quali ormai non si parla quasi più in quanto si sanno per scontati. L’appesantito e zoppicante ospite di Villa Tritone, che accolse a casa sua perfino Andrej Vysinskij, il Grande Inquisitore di Stalin, ma certo non gli dissimulò il suo anticomunismo, non fu affatto il sostenitore un po’ disincantato un po’ rassegnato dell’ala “liberal-progressista” di un abbastanza scialbo fronte comune d’intellettuali democratici che, pur con le sue anche profonde divisioni interne, andava da “Giovannone” Amendola a Gaetano Salvemini ad Adolfo Omodeo e che da una parte si manteneva sempre e comunque prono alle decisioni degli “Alleati” che saranno stati finché si vuole dei Liberatori ma erano anche degli occupanti sovente abbastanza arroganti, dall’altra rispettoso sempre – pur nella distanza delle posizioni politiche – nei confronti del PCI stalinista e del “Migliore”, Palmiro Togliatti.
Qui assistiamo a tutt’altro panorama: a un Croce magari meno anticattolico, molto polemico però in cambio contro certi aspetti delle scelte degli Alti Comandi angloamericani (le sue “tirate” contro il troppo celebrato Winston Churchill e il suo cinismo sono formidabili), assolutamente duro – lui, convinto monarchico – nei confronti di Vittorio Emanuele e anche del di lui figlio Umberto -, rigorosissimo “antipatizzante” nei confronti degli ex-liberali confluiti nel Partito d’Azione e della loro virtù politica troppo spesso celebrata per autoreferenza, difensore nobilmente convinto e ardimentoso dell’italianità del Nordest della penisola che i comunisti si mostravano disposti a cedere alla nuova Jugoslavia per compiacere il diktat di Mosca. Il duello con Togliatti, in particolare, si presenta qui in termini di un reciproco astio che va molto al di là degli schemi eufemistici sovente presentati. Un Croce “nuovo”, meno Mostro Sacro e, diciamolo pure, molto più simpatico di quanto in genere ce lo abbiano presentato. Parola di “gentiliano”.
Pubblicato il 25 settembre 2019 © «Avvenire»