di Ugo Cundari
Si è favoleggiato, ogni tanto, che durante il governo degli Alleati in Italia, dopo la seconda guerra mondiale, l’ottantenne Benedetto Croce abbia brigato per ottenere una poltrona. Qualcuno è arrivato a dire che abbia usato il suo potere di antifascista della prima ora per farsi riconoscere un incarico prestigioso.
Le prime voci furono messe in giro dagli avversari politici di allora, qualche colpa la ebbe anche Togliatti che si spinse fino ad accusarlo di collaborazionismo con i fascisti, arrivando, lui pensatore così integerrimo, al massimo a scoccare «ogni tanto una timida frecciolina contro il regime». Adesso, in Benedetto Croce, gli anni dello scontento 1943-1948 (Rubbettino, pagine 196, € 14,00), l’autore Eugenio Di Rienzo torna su quelle voci di un filosofo bramoso di potere e sgombra il campo da ogni dubbio.
Non lo fa attingendo a fonti italiane o a testimonianze di amici di Croce dell’epoca. Lo fa, da ordinario di Storia moderna alla Sapienza di Roma e tra i massimi esperti dell’epoca in questione, citando documenti inediti e ufficiali scovati negli archivi di stato inglesi.
Da questi viene fuori un Croce tratteggiato come un moderno eroe risorgimentale, incorruttibile e lontano da ogni tentazione di posto di comando. «Lungi da lui ogni interesse personale nel dare il suo contributo al momento storico che l’Italia stava vivendo dopo il fascismo. Gli inglesi lo descrivono come “un perfetto e integerrimo patriota”, il cui unico interesse è salvare il Paese da un trattato di pace disonorevole» dice Di Rienzo.
Eppure, qualcuno, nelle ricostruzioni di allora, ha immaginato che Croce abbia agito per farsi nominare finanche reggente dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III. «Dai documenti inediti che ho visionato esce fuori anche un altro aspetto della vicenda. Croce ne aveva accennato nei suoi taccuini con toni pacati, ma qui è ripreso con accenti più forti». A un certo punto al filosofo abruzzese fu chiaro l’intento degli Alleati nel punire l’Italia che aveva perso la guerra. La Francia poteva annettersi l’isola d’Elba e modificare a suo favore la frontiera occidentale con l’Italia nel Piemonte e nella Liguria. La regione istriana, la citta di Fiume, Pola, l’enclave di Zara, Lagosta e le isole dell’Adriatico al largo della costa dalmata dovevano passare all’allora Iugoslavia. Pantelleria, Lampedusa e Linosa erano destinate a diventare isole nell’orbita dell’influenza britannica. «La reazione del pacato e sobrio Croce fu di ira, feroce. Si oppose con tutte le sue forze. Non voleva accettare che l’Italia perdesse anche minime porzioni di territorio, tant’è che poi al Senato non darà il suo assenso al trattato di pace».
Un altro aspetto essenziale ricostruito nel libro di Di Rienzo è l’impegno del filosofo a favore della monarchia e, stavolta sì, le sue trame per correggerne l’evoluzione. «Credeva nell’istituto della monarchia, non nel re che si era colluso con il fascismo, ecco perché tentò di far salire al trono il principe di Napoli, Vittorio Emanuele Alberto Carlo di Savoia, di appena 6 anni. Secondo questo programma, una volta liquidati il sovrano e il suo erede diretto, la reggenza sarebbe toccata, di fatto, a Maria Jose, da lui personalmente conosciuta e stimata per le sue simpatie liberali, non potendo essere attribuita, come pure prescriveva lo Statuto, al parente più prossimo del sovrano, il già duca di Spoleto, Aimone di Savoia-Aosta, universalmente ritenuto non idoneo, sia caratterialmente che per le sue compromissioni col regime». Proposito che non gli riuscirà, visto che al referendum la monarchia perderà. Attenzione però, il titolo di principe di Napoli non significava nulla, «c’era quella parola, Napoli, giusto per dare un contentino al Sud. Re e principi rimanevano sempre quelli piemontesi».
(Pubblicato il 7 settembre 2019 © «Il Mattino»)