di Dino Messina
“Quando si sostiene che in Italia manca una tradizione liberale di destra conservatrice si omette di dire che essa fu sempre avversata dalle forze cattoliche e dalle sinistre che l’identificarono capziosamente con una risorgenza del fascismo e si dimentica di fare il nome di Benedetto Croce, il filosofo e storico napoletano che forse avrebbe potuto essere il de Gaulle italiano”.
Parte da questa battuta la mia conversazione con Eugenio Di Rienzo, direttore di «Nuova Rivista Storica», di cui, dopo un’impegnativa biografia di Galeazzo Ciano (Salerno Editrice, 2018), che si candida a essere un long seller della storiografia internazionale sul fascismo, è appena uscito un nuovo lavoro, Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948, primo titolo di una collana dell’editore Rubbettino, diretta dallo stesso Di Rienzo, “Diritto/Rovescio” (pagine 178, € 14,00). Un libro che probabilmente prelude a una biografia politica completa di Croce, come si evince anche dalle parole di una conversazione dell’autore con Giuseppe Galasso.
E’ un testo denso, ricco di note e documenti inediti ma scritto anche con la vivacità polemica di chi vuol rimettere al centro del dibattito pubblico una figura importante del Novecento italiano ed europeo ma, in fondo, dimenticata per il suo ruolo di politico a parte intera. “Don Benedetto” o “il Papa laico”, secondo le definizioni irridenti, che gli furono affibbiate da rivali e finti amici per ridimensionarlo, non fu soltanto filosofo, storico e critico letterario, ma si ritrovò suo malgrado nel quinquennio della transizione 1943-1948, tra guerra e dopoguerra, leader del Partito liberale e punto di riferimento per italiani e stranieri che volevano capire o influire sulle sorti della nuova Italia che sorgeva dalle ceneri del fascismo.
La residenza di Villa Tritone a Sorrento, dove il Croce aveva trovato rifugio dai pericoli della guerra incombenti su Napoli, era diventato una meta obbligata per i corrispondenti della stampa dei Paesi Alleati, come Cecil Sprigge, ma anche per i rappresentanti della Commissione di controllo per l’Italia, per antifascisti di vario sentire, per gli emissari dei Savoia e gli alti esponenti della diplomazia vaticana.
La posizione di Croce, dal manifesto del 1925, era quella di un antifascismo intransigente. Un’intransigenza che accomunava, ora, nella condanna di Mussolini, il re Vittorio Emanuele III che aveva firmato le leggi antiliberali, le leggi razziali e appoggiato l’entrata in guerra, ma anche l’erede al trono Umberto, di cui non sopportava l’inconsistenza politica, come il principe dimostrò per esempio in un’intervista al «New York Times» quando spiegò l’entrata in guerra del nostro Paese con il fatto che il popolo italiano la voleva. Una gaffe diplomatica imperdonabile, osservava Croce, commessa proprio quando si trattava di risollevare le sorti del Paese, agli occhi delle Potenze occidentali, e di separare le responsabilità degli italiani da quella del regime.
Benedetto Croce era, innanzitutto, un patriota, argomenta Di Rienzo. E lo era al punto che la sua stessa tesi del fascismo come «invasione degli Hyksos», come effimera parentesi della storia nazionale», cessata la quale l’Italia sarebbe tornata al suo status quo ante, va interpretata alla stregua di una “pia frode” da leggersi in chiave politica. Al filosofo premevano innanzitutto le sorti dell’Italia in un momento in cui il leader britannico Winston Churchill cercava di attuare un piano formulato già prima dello scoppio della guerra: imporre un’egemonia inglese nel Mediterraneo, togliendo ogni velleità all’Italia di tornare a essere un’ambiziosa Media Potenza, come questa aveva dimostrato di voler essere dopo la Guerra d’Etiopia e la proclamazione dell’Impero.
In questo senso, Di Rienzo ritiene molto istruttivo l’appunto del ministro degli Esteri Anthony Eden del 5 luglio 1945 in cui si affermava che l’Italia doveva pagare il prezzo della sconfitta con la perdita delle colonie africane, del Dodecaneso, della Penisola istriana, dei centri costieri della Dalmazia, dell’Isola d’Elba (a favore, rispettivamente, di Grecia, Iugoslavia e Francia). Inoltre, le isole, antistanti alla Sicilia, Pantelleria, Linosa e Lampedusa, e in prospettiva la Sardegna, dovevano entrare con Malta in un Commonwealth mediterraneo sotto egida britannica.
A questo programma di politica estera era strettamente legata la soluzione della questione istituzionale e di conseguenza il destino di Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio. Nel famoso «Discorso della caffettiera», pronunciato alla Camera dei Comuni, Churchill aveva sostenuto che quando c’è una caffettiera bollente ci vuole un manico per maneggiarla. L’allusione era all’Italia, il manico erano il governo Badoglio e il re screditato. Due personaggi che potevano essere funzionali alle mire egemoniche inglesi, per la loro debolezza nel teatro politico interno e internazionale. “Liberale, convintamente monarchico ma favorevole a una monarchia rigenerata e depurata dai cascami del fascismo – osserva Di Rienzo – Croce tentò di ostacolare questo piano”. Per questo aveva ipotizzato una reggenza che escludesse sia Vittorio Emanuele III sia il figlio Umberto. “L’erede al trono doveva essere il giovanissimo Vittorio Emanuele e la reggente sua madre Maria Josè: una personalità forte, diversa dall’imbelle consorte, di radicati sentimenti democratici molto legata al filosofo napoletano, vicina alla Santa Sede e al centro, dopo il 1942, di un importante reticolo antifascista che comprendeva oppositori di diversa tendenza”.
L’ipotesi della reggenza fu sostituita da quella della luogotenenza. Il riottoso e anziano sovrano fu convinto da Enrico De Nicola a promettere che avrebbe nominato luogotenente del regno il principe Umberto in vista di una transizione morbida per salvare la monarchia. A scompaginare i piani degli antifascisti reduci da un litigioso congresso a Bari dove avevano tuonato contro Badoglio e il re, era intervenuto intanto Togliatti, rientrato in Italia a fine marzo 1944 con un’abile manovra concordata tra Mosca e il governo di Brindisi: la cosiddetta “svolta di Salerno”. La priorità era la lotta antifascista, la questione istituzionale sarebbe stata rinviata al dopoguerra, intanto bisognava collaborare, entrando nel secondo governo Badoglio. Tra i ministri (senza portafoglio) si ritrovò anche Benedetto Croce. Era la seconda volta che ricopriva incarichi ministeriali, la prima era stata con Giovanni Giolitti. Quel ruolo non fu né richiesto né pretesto ma accettato, quasi controvoglia e solo per amor di patria, dal filosofo e direttore de «La Critica». Anche perché in quell’esecutivo, egli doveva convivere con chi (Togliatti) da subito lo accusò di non essere mai stato un vero antifascista, ma soltanto un oppositore di comodo, un latifondista, economicamente e socialmente conservatore interessato a salvaguardare i propri interessi di beato possidente.
“Gli anni dello scontento”, per il quasi ottantenne Benedetto Croce (classe 1866), furono tali anche per le divisioni all’interno della sua stessa famiglia culturale e politica. Cruciale fu l’insanabile disputa sul Partito d’Azione con il suo geniale e amato allievo, lo storico Adolfo Omodeo, che il filosofo poi destinò, nonostante i contrasti politici, a dirigere l’Istituto per gli Studi Storici. “Croce – sostiene Di Rienzo – aveva acconsentito in un primo momento all’iscrizione di Omodeo al PdA, a patto che fosse riuscito a trasformarlo in un partito socialdemocratico. Obiettivo irrealizzabile. Il filosofo ruppe anche con Guido De Ruggiero perché ormai contiguo agli azionisti di cui non tollerava le troppo ardite aperture sulla questione sociale, da imporre, scriveva Croce, «con la forza, con la dittatura, con la milizia rossa, ecc., cioè con un rinnovato fascismo»”.
Erano gli anni anche delle aspre polemiche con Ferruccio Parri, con Palmiro Togliatti e Giorgio Amendola da lui definito «il vero tipo dello sportivo fascista, incurante di cultura che non si è mai visto con un libro in mano». “Insomma, l’ospite di Villa Tritone – continua Di Rienzo – rivendicava, senza timidezza, la sua posizione di «conservatore soltanto della logica, e con essa del supremo bene, appena riacquistato, della libertà». Conservatore liberale perché la sua azione mirava a preservare la monarchia costituzionale e il sistema liberale che avevano fatto l’Italia. Liberale senza aggettivi, inoltre, perché in quel termine era implicito anche quello di democratico. Non tutti coloro che si qualificavano come democratici, infatti, (comunisti, socialisti massimalisti, azionisti, sinistra cattolica), aggiungeva Croce, sostenevano sinceramente i valori della libertà”.
“Il mio libro, insiste Di Rienzo, è un atto di accusa contro l’utilizzo della falsa immagine di un Benedetto Croce buono per tutte le bandiere. Un liberal-progressista, come l’ha dipinto, per esempio, Eugenio Scalfari, i cui ideali potevano tranquillamente coesistere con quelli di Gaetano Salvemini (da cui lo divideva il giudizio su Giolitti), Luigi Einaudi (con il quale polemizzò, seppur amabilmente, sulla differenza tra liberismo e liberalismo), Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di cui il filosofo non condivideva il democraticismo avanzato del primo e le simpatie per la Repubblica dei Soviet del secondo. A mio avviso, al filosofo napoletano meglio si attaglia la definizione di de Gaulle italiano, pur con tutte le superabili differenze di queste grandi personalità. Entrambi, con diverso successo, da un lato si batterono animosamente contro il nazifascismo, dall’altro cercarono di evitare che le loro Nazioni entrassero a far parte, in posizione del tutto subordinata, di un mondo occidentale dominato, per usare le parole di Churchill, dagli English-Speaking Peoples e da un terzo fecero muro contro la bolscevizzazione dell’Europa che il laico Croce definì nel 1947 come il trionfo dell’Anticristo”.
(Pubblicato il 29 giugno 2019 © «Corriere della Sera» – La nostra storia)