di Dino Messina
Intervista allo storico Aurelio Musi, membro della spagnola Real Academia de la Historia, per capire la crisi legata al tentativo di secessione: «Alle origini delle divisioni, l’imposizione fiscale del 1640. Oggi, a fronte dall’errore dei ceti catalani che non vogliono più partecipare alla distribuzione fiscale in favore delle regioni più povere, sbaglia anche Madrid, che non sa applicare il modello di compromesso centro-periferia».
Per capire il tentativo di secessione catalana e la crisi che la Spagna e la stessa Europa stano vivendo in queste settimane forse è d’aiuto guardare indietro, al passato lontano, ma anche a quello recente. Ne è convinto il professor Aurelio Musi, docente di Storia moderna all’università di Salerno, membro della spagnola Real Academia de la Historia e autore, tra gli altri, de «La catena di comando: re e vicerè nel sistema imperiale spagnolo», appena edito dalla Società editrice Dante Alighieri nella collana della Nuova rivista storica, e de «L’impero dei viceré», uscito nel 2013 per i tipi de Il Mulino.
La rivolta del 1640 in Spagna
Un possibile lontano punto di partenza, che ci rimanda per la sua drammaticità alla situazione odierna, è il 1640, nel pieno del secolo dell’egemonia iberica nel mondo, «quando il Conte Duca di Olivares (nome familiare ai lettori de «I Promessi Sposi»), uomo di fiducia di Filippo IV, decide che tutti i territori devono collaborare in misura proporzionale alla loro ricchezza. Su questa ipotesi di imposizione fiscale e sul tentativo di inviare a Barcellona governatori non catalani, il rapporto si incrina drasticamente. Viene meno quel patto basato sullo scambio di autonomia contro fedeltà, e la Catalogna, appoggiata dalla Francia, si dichiara indipendente. Si tratta di una crisi lunga, durata ben undici anni, sino al 1651, quando il venir meno dell’appoggio francese ai secessionisti, ma soprattutto lo sfaldamento dell’alleanza fra i vari ceti, che vedono la loro ricchezza in pericolo, fanno arretrare la rivolta e ritrovare l’unità nazionale».
Il discusso compromesso tra centro e periferia
La secessione del 1640 è paragonabile alla crisi odierna? «All’apparenza — dice Musi — il parallelo regge, ma se si va a vedere la situazione reale si scopre che la Catalogna dal 1978 gode di uno statuto di autonomie ben superiori a quello di qualsiasi regione spagnola, Paesi Baschi compresi, e di altre simili realtà europee, anche in settori delicati come l’amministrazione della giustizia e la gestione dell’ordine pubblico». Da che cosa nasce allora questo strappo tra uno dei Reinos tradizionalmente più ricchi e importanti e il potere centrale? «Probabilmente dalla volontà dei vari ceti catalani di non partecipare alla distribuzione fiscale in favore delle regioni più povere. Un ragionamento miope che non solo mette in crisi lo Stato Nazione spagnolo ma alla lunga espone a grossi rischi gli stessi ceti produttivi della Catalogna, che quando si accorgeranno dell’errore vorranno, forse tardivamente, tornare sui propri passi». Secondo Musi c’è stato tuttavia un errore commesso anche dal governo di Madrid, che non ha saputo applicare quel modello di compromesso tra centro e periferia che è alla base della storia della variegata nazione spagnola.
Le «nozze» tra la ricca Catalogna e la povera Castiglia
«Certo, i margini di trattativa sono risicati, come abbiamo visto dal fatto che dal 1978 quel che c’era da concedere è stato dato. Tuttavia l’arte del compromesso è uno stile che ha caratterizzato la storia della Spagna sin dalla sua nascita come nazione, cioè dal matrimonio nel 1469 tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Un patto dinastico che sancì l’unione tra due mondi molto diversi: da un lato la ricca società catalano aragonese che nel XV secolo era molto fiorente ed egemone nell’economia-mondo del Mediterraneo. Dall’altro la più povera e agro-pastorale Castiglia, che tuttavia di lì a qualche decennio si sarebbe arricchita con l’oro e l’argento provenienti dal Nuovo Mondo. La differenza fra le due realtà salta all’occhio ancora oggi anche al turista che viaggi in macchina tra la Catalogna fitta di villaggi e densamente abitata e la Castiglia dove si possono percorrere decine di chilometri senza incontrare un pueblo».
Il potere di Madrid ridimensionato
Il compromesso come arte del governo di regioni molto diverse è stato secondo Musi il filo conduttore della storia spagnola soprattutto nei due secoli, il XVI e il XVII, quando Madrid era a capo di una potenza-mondo. Questo lasciare autonomia e statuti locali lo si vede anche nei rapporti con i viceré del Regno di Napoli o con i governatori del ducato di Milano, territori sotto il controllo spagnolo sino all’inizio del Settecento. Nel 1714, con la fine della guerra di successione spagnola, Madrid si ritrovò a capo di una potenza molto ridimensionata, a vantaggio dell’Austria, ma soprattutto della sempre più forte nazione inglese.
L’Unione europea, grande assente
E oggi? A parte le mancanze del governo centrale di Madrid, nella questione catalana c’è un grande assente, che si chiama Unione europea. Le istituzioni di Bruxelles, secondo Musi, hanno espresso sin qui una posizione cerchiobottista: da un lato invocando l’intangibilità della costituzione spagnola negli articoli che riguardano l’unità nazionale, dall’altro esprimendosi contro ogni forma di repressione. «È mancata — conclude lo storico — una chiara condanna del tentativo secessionista di Barcellona. Se la forma Nazione viene messa in crisi, presto ne risentirà non soltanto lo sviluppo ma la stessa esistenza del progetto europeo, nato proprio dal patto tra alcune nazioni forti».
(Pubblicato il 13 ottobre 2017 – © «Corriere della Sera» – Extra per voi)