di Emilio Gentile
Storico fra i maggiori della nuova leva di studiosi, come Rosario Romeo e Renzo de Felice, che si formarono nel primo decennio del secondo dopoguerra frequentando l’Istituto italiano di studi storici fondato da Benedetto Croce nel 1946, Giuseppe Galasso in oltre mezzo secolo di laboriosa attività scientifica ha affiancato alla ricerca storica la riflessione critica sui metodi, sui temi e sui protagonisti della storiografia. Rientrano nell’ambito di questo secondo campo di studi, i saggi sulla storiografia e sugli storici europei del Novecento che vanno ad aggiungersi ai precedenti saggi storiografici, come Croce, Gramsci e altri storici (1969), Nient’altro che storia (2000), Storici italiani del Novecento (2008).
Motivo ispiratore comune dei saggi storiografici, spiega Galasso nella prefazione al recente volume, è la concezione del lavoro dello storico «come un assiduo e intenso dialogo metodologico e critico con la storiografia di ieri e di oggi nei suoi singoli aspetti sia di storiografia dei singoli temi e problemi volta per volta affrontati, sia di orizzonte problematico generale e di dibattito storiografico del tempo dello storico», così che «le scritture storiche possano riuscire al massimo grado quel che sono: documenti significativi, insieme, tanto della letteratura relativa ai singoli problemi che della storiografia del proprio tempo».
Ma non è solo un criterio metodologico che giustifica una raccolta di saggi molto diversi per ampiezza, consistenza e varietà di temi. Una parte dei saggi riguarda alcune correnti e temi della storiografia contemporanea, come l’esperienza delle «Annales» e la “metastoria”, mentre la parte principale è dedicata a un gruppo di storici del Novecento, come Ferdinand Braudel, George L. Mosse, Ernst Nolte, François Furet, José Antonio Maravall, Jacques Le Goff, accompagnati da alcuni filosofi coinvolti nei problemi della storia, come Hans Kelsen, Karl Popper, Martin Heidegger, Hannah Arendt, Isaiah Berlin.
L’eterogeneità dei saggi ha tuttavia una sua sostanziale unità nel problema fondamentale che tutti li lega in una riflessione comune, cioè il problema «dei disagi e delle crisi della storiografia» nel nostro tempo. Centrale, nel volume, è l’analisi di una «crisi di identità» della storiografia, sulla quale Galasso si sofferma soprattutto nell’introduzione, che è in realtà un profilo della storiografia del Novecento.
L’attuale crisi di identità della storiografia appare particolarmente sorprendente perché avviene dopo che nel corso del Novecento la conoscenza storica, così come era stata fondata ed elaborata dalla cultura europea dell’Ottocento, ha mostrato una straordinaria vitalità estendendo la sua influenza nelle culture di altri continenti, ampliando i campi di indagine, raffinando e innovando i metodi e gli strumenti della ricerca, sviluppando e moltiplicando i temi e i problemi della conoscenza storica. Soprattutto dopo il 1945, la vivacità della storiografia è «dimostrata dalla diffusione, frequenza e importanza assunta dalle discussioni storiografiche su problemi storici recenti e non recenti, che hanno avuto larga eco nei mezzi di informazione più moderni, hanno attratto l’attenzione di un pubblico colto come mai prima, hanno fatto del libro di storia un articolo di mercato, hanno dato luogo a successi di best-seller anch’essi senza precedenti e hanno agito sensibilmente sull’immaginario collettivo alimentando, fra l’altro, una produzione di fictions (a stampa o via radio, cinema, televisione e altri tipi di media) talora di grande successo». Fino ad alimentare, conclude Galasso, «la formazione di una non esigua schiera di storici più o meno improvvisati e più o meno lodevoli o riprovevoli».
Nello stesso tempo, tuttavia, per una sorta di eterogenesi dei fini, la vitalità della storiografia ha generato fattori imprevisti, che secondo Galasso hanno messo in crisi la sua identità, fin quasi a mettere in dubbio la stessa storicità come essenza dell’essere e del divenire umano. Innanzi tutto, per lo storico «è diventato sempre più difficile padroneggiare campi di studio molto ampi», mentre la moltiplicazione quantitativa degli studi specialistici e particolareggiati ha prodotto «una parcellizzazione dei temi, della ricerca, della riflessione, delle competenze, ai cui aspetti positivi, facili a cogliersi nella loro immediata evidenza, corrispondono aspetti negativi forse meno facili a percepirsi, ma di ancora maggior rilievo». Fra i principali aspetti negativi, Galasso segnala «la condanna della storia politica e diplomatica, come pura histoire événementielle e histoire-battaille», seguita da «un’abbastanza rapida conversione della storiografia in una disciplina – a dirla in termini un po’ immaginosi – vassalla o tributaria delle scienze sociali, fino a far perdere ad essa, nei casi estremi, il più della sua identità e autonomia disciplinare, oltre che concettuale». Altrettanto negativa per Galasso è la diffusione di correnti ostili allo storicismo umanistico, che «si esprimono specialmente nell’incalzare della “moda” (con le sue leggi del “nuovo” e del “sensazionale” a tutti i costi e con il suo ritmo incalzante e la velocità dei suoi consumi e delle sue usure) e nella “spettacolarizzazione” di ciò che è e di ciò che non è spettacolare (con le sue esigenze di semplificazione, di alterazione, di “effetti speciali” funzionali agli scopi voluti)». E fra le mode recenti Galasso include la ricorrente pretesa di sottoporre la storiografia ad astratti modelli teorici, a «numerose svolte e rifondazioni» (social turn, linguistic turn, cultural turn), o alla sperimentazione di nuovi generi storiografici, come la storia «contro-fattuale», che ipotizzano «svolgimenti del corso storico diversi da quelli reali». Tutte queste mode, conclude Galasso, «portano, invero, molto lontano da una prassi storiografica» che «sia pur sempre concepita come una disciplina volta alla rievocazione e alla ricostruzione conoscitiva del passato dell’uomo». Intellettuale di formazione crociana, che alla storiografia e al pensiero filosofico di Croce ha dedicato numerosi studi, Galasso ha rinnovato lo storicismo idealistico con fruttuosi innesti delle scienze sociale, dall’economia all’antropologia ma, come egli stesso precisa, «non ho mai perduto però, grazie soprattutto a Croce, ma anche a tutta la tradizione storicista italiana ed europea, il senso della storia, della sua specificità storiografica, delle sue molteplici radici umanistiche».
Con un ammonimento alquanto perentorio, nelle pagine conclusive Galasso avverte: «O il passato lo facciamo nostro, dominandolo o spiegandolo, ma, beninteso, senza anacronismi e alterazioni deformanti, o la storia e il bisogno di essa non hanno senso, anzi neppure nascono». È questo, o tale a noi pare, il possibile esito che lo storico napoletano maggiormente paventa per il futuro della storiografia, come autonoma attività di conoscenza scientifica, che al pari delle altre scienze, per la ricerca si avvale della simbiosi fra ragione critica e verifica documentaria, senza prefigurare, nella ricostruzione critica del passato, corsi e ricorsi prestabiliti. Condividendo con Croce la concezione dello storicismo compendiata nell’affermazione «che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia», Galasso ritiene «che sia proprio in una ripresa e rielaborazione potenziata e originale dello storicismo la via regia per un nuovo secolo della storia che accompagni un nuovo secolo di più alto sviluppo culturale e civile», perché egli è convinto che la storiografia non sia «solo un’attività disciplinare settoriale, ma anche un’eco e un riflesso di tutta la vita intellettuale, civile e morale di quel tempo». Di conseguenza, la crisi di identità della storiografia non è problema solo degli storici, ma coinvolge la coscienza morale e civile dell’uomo contemporaneo, e specialmente dell’uomo europeo, perché Galasso non ha «alcun dubbio che la crisi europea (di cui quella italiana è parte) sia in diretta e profonda connessione con la perdita del senso della storia e con l’abbandono di questi elementi: storia, storicismo e storicità». Se ciò dovesse mai accadere, vedremo Clio, la dea della storia, piangere sulla fine della conoscenza storica, come il pittore britannico Charles Sims, che perse un figlio nella Grande Guerra, la raffigurò piangente sulla morte dei propri figli. La perdita del senso della storia paventata dallo storico napoletano trasformerebbe l’umanità in un gregge ignaro del passato, che vaga nel presente, e scivola o precipita nel futuro senza sapere da dove viene, né chi è, né dove va.
(Pubblicato il 5 febbraio 2017 – © «Il Sole 24 Ore»)