di Antonio Carioti
A qualcuno può essere parso strano l’appoggio che, nell’ultimo periodo della sua vita, lo scrittore russo e premio Nobel Aleksandr Solzhenitsyn diede a Vladimir Putin. Ma come, il capofila del dissenso anticomunista a fianco di un ex ufficiale del Kgb? Eppure per capire la convergenza tra due personaggi apparentemente distanti basta rileggere la lettera inviata nel 1973 dall’autore di Arcipelago Gulag ai dirigenti sovietici, ora ripubblicata, con altri scritti di Solzhenitsyn, nella raccolta Il mio grido (Piano B). In quel testo il romanziere si appellava al realismo dei vertici del Cremlino e li esortava a mettere da parte l’ideologia marxista. Ma non certo per aprire le porte al liberalismo, semmai per riscoprire il pensiero degli «slavofili» ottocenteschi, «i quali dicevano che non bisognava imitare ciecamente la civiltà occidentale, che un colosso come la Russia, con le sue innumerevoli qualità spirituali e tradizioni popolari, poteva benissimo cercare un proprio cammino particolare».
Solzhenitsyn era convinto che, dopo la lunga notte del regime totalitario, la salvezza sarebbe venuta solo da un risveglio religioso, quindi diffidava in modo radicale dell’Illuminismo, come emerge chiaramente dal noto discorso che tenne ad Harvard del 1978, ora riproposto dalla casa editrice Jaca Book in un’altra antologia, Il risveglio della coscienza. Proprio l’esilio lontano dalla patria aveva persuaso il romanziere russo che la società edonista fosse condannata all’autodistruzione: «Frana dopo frana, sotto gli occhi della nostra stessa generazione, l’Occidente sta ineluttabilmente scivolando verso l’abisso», dichiarò a Londra nel 1983, quando gli fu conferito il premio Templeton «per il progresso nello sviluppo della religione». Per quanto detestasse il sistema comunista, riteneva, come disse ad Harvard, che una sua trasformazione in senso liberale solo per alcuni aspetti avrebbe prodotto «un’elevazione», mentre «per certi altri (e quanto importanti!)» avrebbe significato «un abbassamento».
Il segreto del successo di Putin, del grande consenso che ha raccolto intorno a una gestione del potere tendenzialmente autocratica, con parecchi lati oscuri, risiede anche nella sua capacità di rappresentare le istanze di cui il grande scrittore si faceva portavoce: riscoperta dell’orgoglio nazionale russo, pragmatico realismo in politica estera, appello alla tradizione religiosa ortodossa. D’altronde, come sottolinea Eugenio Di Rienzo nel libro Il conflitto russo-ucraino (Rubbettino), Europa e Stati Uniti hanno fatto per molti versi il gioco del Cremlino, assecondando il nazionalismo di Kiev fino a prospettare l’estensione della Ue e della Nato fino al fiume Donets e al Mar d’Azov.
«Sempre, ogni russo che io abbia mai incontrato, compresi i dissidenti della vecchia Urss, ha considerato l’Ucraina come parte essenziale della storia del suo Paese», ha dichiarato Henry Kissinger in un’intervista alla Cnn citata da Di Rienzo. E non c’è dubbio che anche Solzhenitsyn la pensasse così: la separazione di Kiev da Mosca fu per lui motivo di grande dolore. Ma la verità è che l’Ucraina post-sovietica è una creatura artificiale del trionfo di Stalin nella Seconda guerra mondiale, così come la Jugoslavia lo era dello smembramento dell’Impero asburgico seguito alla Prima. Difficilmente uno Stato composto di spezzoni dalla storia così eterogenea può sopravvivere, se non trova un equilibrio consociativo tra le sue componenti interne e una collocazione di ponte tra mondi diversi a livello internazionale.
Purtroppo a Kiev è stata imboccata la via opposta, con il conseguente spargimento di sangue. E le responsabilità vanno divise tra un vasto arco di soggetti. Di Rienzo forse esagera nell’attribuirle in netta prevalenza agli Stati Uniti e al loro progetto (per la verità piuttosto in ribasso) di «nuovo ordine mondiale». In fondo è ben comprensibile che la riscossa del Cremlino desti in Polonia e nei Paesi baltici un’apprensione cui Washington e Bruxelles non possono restare indifferenti. Ma non c’è dubbio che anche la Russia ha ragioni sensate da far valere e che Putin sfrutta, con abile cinismo, un retroterra culturale meritevole di rispetto, che ritroviamo anche negli scritti appassionati e profetici di Solzhenitsyn.
Aleksandr Solzhenitsyn, Il respiro della coscienza. Saggi e interventi sulla vera libertà 1967-1974, a cura di Sergio Rapetti, Jaca Book 2015, pagine 236, € 20,00
Aleksandr Solzhenitsyn, Il mio grido, Traduzione di Daniela Campanini, Piano B Edizioni 2015, pagine 117, € 12,00
Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Rubbettino 2015, pagine 105, € 10,00
(Pubblicato il 23 maggio 2015 – © «Corriere della Sera» – Il club de La Lettura)