di Alberto Melloni
«Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato tale essere la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quando altri meno se ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento e irresoluto al sentenziare». Questo celebre giudizio di Galileo fa capolino verso la fine del volume che Paolo Rossi Monti, filosofo e storico della scienza scomparso il 14 gennaio, ci ha lasciato come un messaggio postumo: Un breve viaggio e altre storie (Raffaello Cortina), in libreria dal 18 aprile prossimo, è infatti una raccolta di saggi che riapre, almeno per un momento, il dialogo con questo osservatore impietoso delle storture del nostro stesso ragionare sulla storia e su noi stessi, sulla memoria e sulla guerra, sulla esperienza dell’esistenza e sull’insegnamento che un grande può trarre dalla sbalorditiva capacità di autoinganno dei propri maestri e di cui la sciatteria dei «maestrini» più recenti è un noioso remake.
Paolo Rossi, infatti, non si stanca di seminare un dubbio che corroda tutti i dogmatismi, anche quelli relativisti o indignazionisti, e che sia anticamera alle «ragionevoli speranze» nutrite dalla disincantata consapevolezza di aver vissuto, per un pochino, nel millennio del sapere. Egli ricorda alle virginee arcadie del purismo metodologico, così come alle fumerie ideologiche che non chiudono mai (Alberto Asor Rosa e Danilo Zolo le sue prede più pregiate), che la nostra conoscenza del passato è comunque frutto di compromessi, mistificazioni, censure, rinvii, inganni, metamorfosi, aggiornamenti, revisioni, patteggiamenti. Non solo – e la memoria del bambino cresciuto nel fascismo umbro su questo fiammeggia anche oltre la soglia della vita – quando è il potere che di questa operazione si fa carico: ma anche quando ne diventa corifea una scienza che non sa gustare il proprio limite e il proprio metodo.
La storia come conoscenza non del «nostro passato», ma (Rossi la cita da Giulio Preti e da Adriano Prosperi) come conoscenza di un «altro presente». Un presente lontano o vicino, conosciuto dal vivo o dalle fonti, sul quale campeggia comunque una tesi che Haruki Murakami enuncia all’inizio del suo romanzo 1Q84: «Forse la frase più importante che la storia insegni agli uomini è questa: a quel tempo nessuno sapeva ciò che sarebbe accaduto». Questo sforzo di guardare al passato per come è e non per ciò che ce lo rende caro o inviso, Rossi lo applica a molti oggetti: ai suoi ricordi paesani, all’università della sua formazione, e soprattutto agli intellettuali italiani, presi con spietatissima delicatezza in castagna nei momenti in cui le tre grandi sbornie ideologiche del Novecento – quella fascista degli anni Trenta, quella rivoluzionaria degli anni Settanta, quella delle neo-guerre dal Kosovo alle Torri Gemelle – chiedono e permettono loro rocambolesche riconversioni a prezzi di saldo.
Il rapporto degli intellettuali col fascismo non si capisce, secondo Rossi, limitandosi a ricordare la militanza rigenerante comunista o l’autoassoluzione democratica di Cesare Pavese o Curzio Malaparte, Giaime Pintor o Enzo Paci, Giorgio Bocca o Amintore Fanfani. Questi sono casi: che servono solo se tipizzano la lettura di sé e del fascismo che segna quel «dopoguerra storiografico» studiato da Eugenio Di Rienzo.
Infatti le coscienze più molli – quella di Mario Alicata, per esempio – si liberano del doppio fardello dando della «vecchia baldracca» a chi gli ricordava trascorsi non proprio lusinghieri; mentre quelle più acute – come Italo Calvino – sono perfettamente consapevoli del fatto che una casualità sottilissima li ha portati a militare dalla parte della libertà e a scrollarsi di dosso, volta per volta, gli automatismi culturali del fascismo. Ma qui s’inserisce il secondo nodo, quello del fascismo in quanto tale: perché, lo ricordava Eugenio Garin, il confine fra fascismo e antifascismo è, per la generazione che ne è stata vittima e truppa, un confine labile, che ciascuno varcò più volte nel corso di quel ventennio, mettendo in competizione conformismo e corag-gio, autoindulgenza e giudizio, coscienza e illusione.
Un imprinting autoassolutorio che alla fine si salda, secondo Rossi, con quel considerare quantité négligeable gli ideologismi che attendevano l’Italia: da quello rivoluzionario di chi nel 1971 si impegna con Lotta Continua a «combattere con le armi in pugno contro lo Stato» fino a quello masochistico di chi nel crollo di «quelle sciagurate Torri» dell’11 settembre vedeva all’opera «un genio della politica» e «una spaventosa audacia intellettuale».
Questa dominante ideologica si salda, nella lettura che Rossi fa di Pascal Bruckner, con quel senso di colpa che l’Europa si porta dentro: neppure su questo antioccidentalismo degli occidentali, Rossi si limita a far rampogna in nome di identità vaghe o a listar casi da premettere al rogo atomico che il mondo evitò proprio perché esso era possibile. Anzi intravede in questo sentimento che tanto detesta un possibile destino per l’Europa. Quello di inoculare in «personaggi che ritengono di rappresentare il Bene e la Verità» quel senso di «vergogna, ovvero quello stesso veleno che ci corrode» e sperare che si diffonda quel senso modesto del sé che un grande storico delle religioni, Ernesto De Martino, gli aveva insegnato ad apprezzare.
Leggere questo Rossi «estremo», in una Italia di cui chi sta lassù dimentica la fragilità morale, è ancora un vaccino prezioso: un vaccino da dosare con più cura, da ricordare con più attenzione.
(Pubblicato l’8 aprile 2012 – © «Corriere della Sera»)