di Giuseppe Galasso
Col passaggio a un nuovo sistema di valutazione dei titoli scientifici nei concorsi universitari muta, sì, una prassi accademica, ma con varie altre implicazioni. L’intento è buono: passare la produzione scientifica del Paese a un vaglio più oggettivo e di maggiore ricezione internazionale. Le vie scelte a tale fine appaiono, però, più discutibili.
Già molti ne hanno parlato. I criteri proposti da varie parti accrescono le preoccupazioni. Nel mio campo di studi più proprio, ad esempio, per qualche settore storico si è proposto di ritenere di serie A già per il loro nome tre editori: Einaudi, Laterza e Il Mulino. Sono editori che hanno illustrato la cultura italiana in ogni senso. Benissimo. Ma, insieme, si sono pure escluse, tranne qualche caso, da una valutazione positiva riviste e pubblicazioni delle società storiche regionali, in cui ha debuttato o è attiva una gran parte della migliore storiografia italiana, e di cui è più che doveroso non disconoscere il lavoro. Del resto, per altri, pare, neppure la «Rivista Storica Italiana» va inclusa nella serie A delle pubblicazioni scientifiche. Che dire? Spero di essere male informato.
Tralascio problemi come l’irrazionale adozione degli stessi criteri per settori e discipline molto lontani fra loro; o come l’assurda migliore valutazione a seconda dell’editore delle pubblicazioni; o come l’ingenua fede che il numero delle citazioni conseguite da un lavoro sia garanzia assoluta della sua bontà, o che i comitati o i garanti ora richiesti diano più garanzie delle direzioni e redazioni attuali (e magari uno studioso potrà essere garante di scientificità in altre sedi, ma non per le proprie collane o riviste); o come il legittimo dubbio sulla necessità di previe certificazioni, se nei concorsi vi sono commissioni esaminatrici.
Mi riferisco solo agli effetti di tutto ciò per i piccoli editori e le piccole riviste, che non siano in grado di conformarsi alle nuove norme per varie ragioni, e anche per i costi di un’organizzazione un po’ più complessa, o di valutatori o garanti esterni o sommari in altra lingua, e così via: tutte cose che, per essere serie, richiedono, si sa, delle spese. Gli autori preferiranno, pour cause, editori e riviste di serie A o B, e così pure gli studiosi per dirigere collane o riviste; i finanziatori si indirizzeranno là dove il prestigio è attestato da una pubblica graduatoria; se si gode di qualche inserzione pubblicitaria, anche questa tenderà altrove.
Insomma, la vita della piccola editoria, già difficilissima, rischierà di diventare ancor più difficile, e con essa anche il debutto dei più giovani, cui i piccoli editori sono più accessibili (provvederanno per tutti le università?), e la vita delle iniziative culturali di più modesto respiro editoriale, ma non per ciò sempre di minore respiro scientifico o culturale. Qui non si tratta del «piccolo è bello», ma di altro. Da quanto si è detto le voci nuove dagli inizi più difficili, la cultura di tendenza, la cultura locale, le piccole minoranze di ogni tipo, gli studiosi o intellettuali più isolati o più individualisti, le piccole istituzioni saranno rese meno facili. La piccola editoria, se riesce a sopravvivere, ne sarà ancor più ridotta a editoria di ghetto più che di nicchia. Non sarà meglio ridurre a un assoluto minimo i requisiti di cui si parla?
Immagino già il sorriso, se non peggio, degli innovatori: il mondo è cambiato, nell’era telematica c’è il villaggio globale, col computer si può fare tutto, oggi c’è la regola delle tre «i» (italiano, sì, ma con informatica e inglese, che ormai anche i bambini conoscono), baronie e provincialismi sono finiti. Tutte cose in parte ragionevoli, in parte no. Ma il punto non è questo. Il punto è dell’autonomia e spontaneità dell’iniziativa culturale e scientifica, che va sempre tutelata, ma non sempre si può formare in rispondenza a una certa modulistica di requisiti, e che non è detto che sia garantita da certificazioni particolari più che dal libero dibattito e confronto quotidiano nella vita scientifica.
È in questo dibattito che sono stati sempre battuti le baronie e le fazioni culturali, i vuoti campanilismi o i dialettalismi insensati, le meschinità intellettuali, la falsa o sciocca scienza, il tradizionalismo come incongruo passatismo, e altro ancora. Senza contare le baronie e fazioni e altre negatività che anche il nuovo sistema potrà produrre (se, come dice qualcuno, non sta già producendo) e che, per l’appunto, solo per la «vecchia» via di confronto e dibattito potranno essere indicate e battute.
(Pubblicato il 24 febbraio 2012 – © «Corriere della Sera»)