di Ugo Cundari
Che Benedetto Croce fosse stato per quasi tre anni, dal ’22 al ’24, sostenitore del fascismo è noto, ma Eugenio Di Rienzo, docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma, approfondisce la vicenda nel saggio Benedetto Croce. Gli anni del fascismo (Rubbettino, pagine 220, € 18,00) e l’inquadra nell’ambito di una maturazione politica e personale da parte del filosofo più complessa di quella fino ad oggi messa a fuoco. Iniziamo dal Croce che aderì. «Don Benedetto, se non si trasformò davvero in “uno schietto fascista senza camicia nera” come gli rinfacciò Giovanni Gentile, pure fu vittima di quell’illusione, e lo fu, precocemente, prima e dopo la marcia su Roma del 28 ottobre del ’22», scrive Dí Rienzo. Croce, il 24 ottobre del 1922, era al San Carlo nel palco assegnato ai senatori «quando ascoltò con compiacimento, insieme al parterre de rois costituito dalla maggioranza dei notabili partenopei, il discorso di Mussolini e forse, ma qui il dubitativo è d’obbligo, addirittura partecipò alla standing ovation che seguì a quell’intervento». E quell’intervento non fu uno dei tanti: annunciava l’imminente arrivo degli squadristi a Roma e, sono parole del duce, «l’immissione nello Stato liberale di tutta la forza delle nuove generazioni italiane uscite dalla guerra e dalla vittoria». Da quel momento, ricostruisce l’autore, «il filosofo assunse una posizione di fiduciosa attesa per l’opera risanatrice che il levarsi dell’astro Mussolini poteva comportare».
Questa fiduciosa attesa la nutrì anche a costo di rompere la sua antica e fraterna amicizia con Giustino Fortunato, disperato al pensiero che il suo Benedetto non vedesse il pericolo del fascismo, mentre lui, il grande meridionalista, previde che il colpo di forza dei camerati avrebbe decretato «la fine della borghesia». In una lettera Fortunato chiese a Croce, disposto a tutto pur di allontanare il pericolo comunista: «La salvezza, dunque, l’avremo a prezzo della violenza e dell’illegalità?». Croce pare abbia replicato ironicatnente con queste parole: «Ma don Giustino, vi siete scordato quello che dice Marx che la violenza è la levatrice della storia?». Un mese dopo la calata degli squadristi sulla capitale, Croce, leggiamo in I taccuini di lavoro redatti dal filosofo, diede udienza a palazzo Filomarino «a Ernesto Belloni, il futuro delegato del fascismo a Napoli, che era venuto a presentarmi gli omaggi e a domandare il mio parere sulle cose napoletane». Il ripensamento di Croce, che arrivò anche a votare la fiducia a Mussolini dopo l’attentato a Matteotti, sarebbe avvenuto nel momento in cui realizzò che il partito fascista non si sarebbe mai parlamentarizzato e che alla violenza, giustificata all’inizio, non avrebbe mai rinunciato, facendovi ricorso sempre di più. Allora Croce diventò liberale e il primo di tutti gli antifascisti.
«Se non avesse commesso quello sbaglio, il Croce strenuo difensore della libertà non sarebbe mai esistito», dice Di Rienzo. «Croce non è nato liberale, lo è diventato dopo aver capito la minaccia di ogni totalitarismo, non solo il comunismo ma anche il fascismo. Nel suo caso la biografia ha influito sul pensiero».
(Pubblicato il 17 febbraio 2021 © «Il Mattino»)