di Luigi Morrone
Sul Fatto Quotidiano del 15 gennaio, Gad Lerner per un attimo accantona le battaglie pro Soros e pro migranti, e si veste da nostalgico del suo passato da rivoluzionario lottatore continuo per ricordare la scissione di Livorno, con tanto di bacchettature per chi, “col senno di poi”, rimpiange la mancata scelta riformista del PSI.
Mi sono occupato della scissione di Livorno sul blog “La Nostra Storia” del Corriere della Sera. Concludevo l’articolo ricordando le fasi alterne che caratterizzarono i rapporti tra i protagonisti della scissione e, poi, tra i loro epigoni. In realtà, la scelta “massimalista” del PSI, ed il misero consenso raccattato al Congresso dalla mozione riformista di Turati pesarono non poco nelle vicende del fronte antifascista e della sinistra italiana anche nel dopoguerra. La scelta del PSI di aderire al Komintern, di adottare il simbolo del Partito Comunista Russo, di percorrere la strada della violenza per la conquista del potere, isolò i socialisti italiani dai socialisti europei che, fin dall’inizio della Prima guerra mondiale, avevano operato quelle scelte che al Congresso di Livorno «arrivò ultima, con meno del 10% dei delegati», come ricorda il nostro lottatore continuo.
Concordiamo con Lerner sulla insussistenza di un qualsivoglia nesso eziologico tra la scissione e l’avvento del Fascismo, ma è una violenza alla realtà della Storia dire che i comunisti furono i soli ad opporsi al Regime durante il Ventennio. La realtà è esattamente opposta. Quale che sarebbe stato il risultato in caso di unità d’azione, i comunisti tesero sempre a frammentare il fronte antifascista. Un primo tentativo di unificare le forze antifasciste fu proprio del PSI, che lanciò nell’aprile del 1927 un appello alle forze che si opponevano al regime con forte richiamo all’unità d’azione: “Credete voi, compagni del PCDI, del PSDI, del PRI e dei GAI, di poter continuare nell’azione di critica esclusivamente negativa al regime fascista, di sottile differenziazione teorica, tra di noi, di iniziative particolaristiche e discorsi?». E a fare abortire sul nascere l’iniziativa furono proprio i comunisti, ponendo all’auspicata unità d’azione dei “paletti” inaccettabili per le forze non marxiste.
Solo nel 1934 fu possibile una convergenza tra PCd’I e PSI, ma su una piattaforma comune, ancora una volta, inaccettabile per le altre forze che si opponevano al Regime. Non è un caso se il PCd’I rimase fuori dalla “Concentrazione di azione antifascista” che fu partorita dalla suddetta iniziativa del PSI nello stesso 1927. Ed i comunisti rimasero fuori anche da “Giustizia e Libertà”, fondato da Emilio Lussu e dai fratelli Rosselli nel 1929 ed in cui confluì nel 1934 la Concentrazione. Ancora nel 1936, i comunisti, che vedevano al suo apice il successo popolare del Fascismo, lanciavano un appello alla conciliazione ai “Fratelli in camicia nera”, dicendo: «Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso alla riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute … I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori … Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi».
La guerra di Spagna vide il fallimento del richiamo dei comunisti ai “Fratelli in camicia nera”, ma persino in quel crogiuolo bellico, l’unità antifascista non vide la sua completa realizzazione per la tendenza dei comunisti a differenziarsi. Come dimenticare gli episodi di “pulizia” nei confronti dei miliziani non comunisti? Emblematiche le “giornate del maggio” a Barcellona, nel 1937, con la mattanza di anarchici e repubblicani non comunisti da parte delle forze del governo repubblicano della Catalogna, guidati da «elementi del partito comunista sprovvisti di educazione politica», come dirà il periodico anarco-socialista “La Batalla”. In realtà Lerner è parecchio reticente non solo su quello che fu il ruolo del Pcd’I nell’organizzazione dell’opposizione al Regime, ma anche su un’altra costante degli scissionisti: quella della supina dipendenza da Mosca.
Nel mio su menzionato articolo, ricordavo come la scissione di Livorno fosse stata determinata da Mosca, ma anche in seguito la costante fu quella. Il Patto Molotov – von Ribbentrop spiazzò letteralmente i partiti antifascisti. Nenni parlò apertamente di “tradimento della classe operaia” da parte dell’U.R.S.S. Nella loro “cronologia” della vita di Togliatti, Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca scrivono che in quell’occasione Togliatti ribadì «la necessità di proseguire la battaglia contro i disegni di nazisti e fascisti, distinguendo la posizione dei partiti comunisti dalla politica estera e di sicurezza dell’URSS». Ma è una ricostruzione edulcorata. Il PCd’I, come racconterà Camilla Ravera a Giovanni Corbi di Repubblica, si appiattì su Stalin. Tra i confinati di Ventotene ci fu una spaccatura tra i comunisti (tra cui il segretario del Partito clandestino, Giuseppe Berti) ed i confinati non comunisti, furiosi per il “patto col diavolo”. Togliatti, nelle sue “Lettere di Spartaco” sostenne apertamente il Patto. Lo stesso Canfora, che tenta una ricostruzione quasi agiografica della vita di Togliatti (“Togliatti e i dilemmi della politica”, Laterza) è costretto ad ammettere che “Il Migliore”, sul Patto, si adeguò alle direttive di Mosca.
Proprio il Patto fu, forse, alla base della “tiepida” reazione comunista alle leggi razziali, lamentata persino da Vittorio Foa in “Questo Novecento”, Einaudi. Il PCd’I assistette indifferente all’invasione tedesca della Cecoslovacchia, dopo che Stalin aveva dichiarato che non sarebbe intervenuto a fianco di un governo capitalista; stessa indifferenza di fronte alla spartizione della Polonia tra Germania e URSS, mentre gli antifascisti non comunisti si mobilitarono, soprattutto al fianco degli esponenti del governo cecoslovacco in esilio: Beneš e Masaryk furono in perenne contatto con i circoli dei fuoriusciti antifascisti a Londra.
Anche i rivendicati “meriti resistenziali” del PCI (denominazione assunta medio termine) trovano ampie amnesie nella ricostruzione di Lerner, che “dimentica” alcuni aspetti non certo marginali della guerra civile: la sostanziale autonomia dei GAP rispetto alle altre formazioni partigiane (nonostante lo scioglimento del Komintern, nel 1943 e la conseguente “svolta di Salerno” con la quale il PCI sceglieva una sorta di “via nazionale”); “spiacevoli incidenti” come l’uccisione di partigiani non comunisti da parte dei comunisti, con il solito pretesto delle accuse di “spionaggio” (lo sterminio della brigata Osoppo a Porzūs è solo la punta dell’iceberg); la partecipazione dei comunisti ai pogrom antitaliani al confine orientale, con vittime anche tra elementi antifascisti (ben ricostruiti da Dino Messina in “Italiani due volte”, Solferino).
Anche nel dopoguerra, l’allineamento a Mosca del PCI e la sua pretesa di reductio ad unum furono elemento di divisione all’interno dei partiti operai. I partiti socialisti europei avevano ormai definitivamente abbracciato il riformismo, quando l’Europa si spaccò in due. L’intera Europa Orientale, fin dal 1945 occupata dall’Armata Rossa e da questa amministrata in piena autonomia e senza canali di comunicazione con le Nazioni Unite, era diventata una sorta di protettorato dell’URSS, attraverso i partiti comunisti che – come notava Churchill già alla fine di quell’anno, avevano raggiunto una forza ed una preminenza di gran lunga superiori alla loro consistenza numerica, onde da più parti si sollevava la preoccupazione che i partiti comunisti fossero utilizzati dall’URSS quali “quinte colonne”. I Paesi non occupati dall’Armata Rossa, come auspicato da Churchill, si compattarono alla ricerca di un fronte comune da contrapporre al blocco sovietico, ma nell’Europa ancora occupata dalle forze delle Nazioni Unite, il lavoro diplomatico si rivolse nella direzione della esautorazione dei partiti comunisti dall’area di governo. Ciò avvenne in Lussemburgo con il gabinetto Dupong-Schaus; in Belgio con il III governo Spaak; in Francia con un rimpasto al primo governo Ramadier; in Italia con il IV Governo De Gasperi.
In Italia, tra l’altro, si spaccò il fronte ciellenista non solo al governo, ma anche tra gli ex partigiani, che avevano formato già nel 1944 l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI). Dopo l’estromissione dal governo del PCI e del PSI, al primo congresso nazionale dell’ANPI, nel dicembre 1947, vi fu la secessione delle componenti democristiane e liberali; nel marzo 1949, l’adesione dell’ANPI al movimento internazionale “Partigiani per la Pace” (di ispirazione filosovietica), provocò una seconda secessione, degli ex azionisti guidati da Ferruccio Parri. La divisione in blocchi fu ulteriormente irrigidita dalla fondazione nel 1947 del Kominform, che in pratica sostituiva il vecchio Komintern, cui aderirono i Partiti Comunisti occidentali. In questo clima internazionale, i Partiti Comunisti erano nella situazione di aderenti ad un blocco che operavano all’interno di Paesi inseriti nel blocco contrapposto.
Il PSI, al contrario dei socialisti europei, aderì al Kominform, rompendo con l’Internazionale Socialista alla Conferenza di Londra del 20 marzo 1948, quando era stato posto davanti a un bivio: o rompere con il Kominform o rompere con l’Internazionale Socialista. I rappresentanti del PSI alla Conferenza abbandonarono l’aula dopo l’approvazione dell’OdG contenente tale invito. Il Segretario socialista, Pietro Nenni, annotò sul suo diario del 23 successivo di approvare tale scelta.
Quelli che “col senno di prima” s’inserivano nell’area delle socialdemocrazie europee, non condividendo tali scelte, già prima dell’adesione al Kominform, avevano abbandonato il PSI al XXV congresso tenutosi nel gennaio 1947 a Palazzo Barberini, fondando il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (che nel 1952 assumerà il nome di Partito Socialista Democratico Italiano), sotto la guida di Giuseppe Saragat e Matteo Matteotti, figlio di Giacomo. Alle elezioni del 1948, PSI e PCI si presentarono uniti nel Fronte Democratico Popolare e, per la prima volta, il PCI divenne il primo partito della sinistra, conseguendo alle successive elezioni del 1953 oltre il 22% dei voti, contro il 13% circa del PSI.
La rottura tra PSI e PCI si consumò dopo i fatti di Ungheria. Quando Nagy fu a capo del “nuovo regime”, il PCI e la CGIL si schierarono subito con il suo governo, probabilmente inquadrandolo nella “destalinizzazione” conseguente al XX Congresso del PCUS (l’Unità del 28 ottobre 1956 dedicò l’intera prima pagina ai fatti d’Ungheria, prendendo chiaramente posizione in favore di Nagy). Quando fu chiaro che Mosca non gradiva il “nuovo corso” ungherese, il PCI operò un rapido dietro-front, addebitando a Nagy l’attuazione del “terrore bianco”, mentre il PSI condannò decisamente l’invasione dell’Armata Rossa, con una nota della Direzione Nazionale che la dichiarava «incompatibile col diritto dei popoli all’indipendenza». Il dissenso interno al PCI fu rapidamente soffocato, come racconterà Mario Pirani, all’epoca alla redazione romana dell’Unità. La rottura tra i “frontisti” era consumata e divenne definitiva quando il PSI accolse nelle sue fila i “transfughi” del PCI che ruppero con il partito dopo i fatti di Ungheria, tra cui il segretario particolare di Togliatti, Antonio Giolitti.
Le amnesie di Lerner investono – poi – il suo vissuto personale, laddove rimprovera a quelli del “senno di poi” di attribuire una veste “riformista” a Berlinguer. Amnesia veramente potente, perché “arruolando” il Berlinguer posteriore allo “strappo” nelle fila dei “rivoluzionari”, come è stato lui (in polemica con chi vede QUEL Berlinguer come “riformista”), “dimentica” il congresso di Lotta Continua a Rimini del 1976 (proprio l’anno dello “strappo”), in cui il suo leader Adriano Sofri disse: «Oggi la politica del Pci si limita a una gestione, giorno per giorno, di una linea deflazionistica priva di alternative … lo sperticato pronunciamento di Berlinguer a favore della Nato, in piena campagna elettorale, ne è un corollario».
Ma, violenza agli avvenimenti storici ed “amnesie” a parte, è la tesi di fondo di Lerner che è malata di preconcetto. Non siamo tra quelli che demonizzano qualcuno e qualcosa: sappiamo bene che il Comunismo è stato un sogno di generazioni, sappiamo bene che le istanze da cui nacque sono istanze ancora oggi valide. Ma Lerner dovrebbe fare pace con sé stesso. OGGI ha abbracciato toto corde i principi della “democrazia “borghese”, si lancia in campagne per la difesa di quelli che Marx chiamava i “diritti borghesi”, è la sua evoluzione politica a dire che, anche per il suo vissuto, la sparuta pattuglia di Turati al Congresso di Livorno “aveva ragione”, come dicono gli interlocutori vituperati da Lerner. Se avesse voglia di essere chiaro, dovrebbe dirci se ritiene che, nel 1919 (a cui risale l’opzione “rivoluzionaria” del PSI), il “faro della Rivoluzione d’Ottobre” fosse quello da seguire. Dovrebbe avere la franchezza di dirci che, in quel momento, sarebbe stata auspicabile una rivoluzione che ponesse l’Italia sotto il protettorato di Mosca.
Che la polemica contro il “senno di poi” sia un lapsus freudiano e la sua veste da “liberal” sia dettata dall’esigenza di una sua collocazione nel panorama politico dell’Italia di oggi?
(Pubblicato il 18 gennaio 2021 © «Destra.it» – Al muro del tempo)